Con l’affermarsi delle forze di mercato globali, la politica risulta oggi indebolita e limitata nei suoi poteri decisionali. Istituzioni economiche internazionali e multinazionali esercitano una notevole influenza sulle decisioni politiche, riducendo così la capacità degli Stati di agire in modo indipendente. Questa riflessione è fondamentale per ogni ambito di azione delle nostre democrazie.

Negli scritti e interviste raccolti nel volume L’Occidente diviso, Jürgen Habermas mette con lucidità in evidenza gli attuali caratteri delle democrazie dell’odierno Occidente, con un accento particolare soprattutto sull’Europa e sulle analogie e differenze con gli Stati Uniti.

George W. Bush, conferenza stampa del 24 maggio 2007, Rose Garden, Casa Bianca, foto di Joyce Boghosian, Wikimedia Commons

Habermas vede nella dottrina Bush sulla sicurezza, enunciata nel settembre 2002 e inaugurata nel marzo 2003 con l’invasione dell’Iraq, una cesura con la politica americana precedente: l’America si riservava infatti, nei casi in cui la propria sicurezza fosse messa in pericolo, il diritto di un intervento preventivo anche senza l’avallo delle Nazioni Unite, come infatti accadde. «I discorsi e le azioni di questo presidente – diceva Habermas – non consentono nessun’altra conclusione: egli vorrebbe sostituire alla virtù civilizzatrice di procedure giuridiche universalistiche l’armamento di un ethos americano con pretese di universalità.»

E su cosa si regge questa nuova forma di pax americana? Vale la pena riportare due giudizi di Habermas che, per quanto non recenti, più di altri sono in grado di spiegare i motivi della crisi attuale, il primo sulla trasformazione in senso neoliberale delle istituzioni, processo che ha il principale sponsor negli Stati Uniti:

«Il disegno neoliberale della società del mercato mondiale conta sulla emarginazione dello Stato e della politica. Alla politica rimangono tutt’al più le residue funzioni di Stati “guardiani notturni”, mentre il diritto internazionale destatalizzato si trasforma in un ordinamento privatistico su scala mondiale, che istituzionalizza il traffico del mercato globalizzato. Il dominio delle leggi che si autoeseguono non avrà più bisogno di alcuna sanzione statale, perché le funzioni di coordinamento del mercato mondiale bastano a una integrazione pre-statale della società mondiale. Gli Stati emarginati potranno riconvertirsi in un sistema funzionale fra tanti altri, perché l’isolamento e la spoliticizzazione dei cittadini di questa società renderanno superflue le funzioni di consociazione e di creazione dell’identità civica. Il regime globale dei diritti umani si limita alle libertà negative di cittadini che assumono uno status in certo senso “prossimo” al mercato mondiale.»

Il secondo giudizio è sull’Europa:

«… le élites politiche dovrebbero riflettere sui limiti di una modalità burocratica di governo. Debbono anzitutto pensare a dove e in che modo il controverso traguardo dell’unificazione europea possa con qualche probabilità di successo diventare il tema di un processo di autointesa fra i cittadini stessi. Una identità politica dei cittadini, senza la quale l’Europa non può conseguire alcuna capacità di intervento, si crea soltanto in uno spazio pubblico transnazionale. Questa creazione di una coscienza si sottrae all’intervento elitario dall’alto e non si può “effettuare” mediante decisioni amministrative come il traffico di merci e di capitali nel comune spazio economico e monetario.»

Bambini in Palestina, foto di Janeb13, Pixabay

Gli ultimi vent’anni hanno confermato una progressiva spoliazione del potere politico da parte di quello economico, ed è sotto gli occhi di tutti come l’informazione sia in mano a network digitali, la difesa in appalto all’industria bellica, la sanità diretta dalle multinazionali del farmaco, con le distorsioni che tale realtà può arrecare alle istituzioni. Potenti demo-tecnocrazie, senza una reale rappresentanza politica, fronteggiano oggi Paesi guidati da visioni autoritarie (Russia, Cina) o integraliste (Islam radicale).

Nella mancanza di una proposta politica degli Stati Uniti e dell’Europa, l’Ucraina in Europa, Taiwan nel Pacifico e Gaza in Medio Oriente sono diventate, con differenti pretesti, altrettante crisi per ridisegnare nuove aree di influenza. La stabilità planetaria viene oggi di fatto affidata alle armi, semplice variabile produttiva, mentre dovrebbe essere il compito di una visione lungimirante e di un’altrettanto agguerrita diplomazia, capace di allentare la tensione tra Nord e Sud del mondo, o meglio tra Occidente e resto del mondo.

Perché abbiamo permesso questo? Non agli altri di crescere al nostro livello e magari di prendere il nostro posto (pensiamo soprattutto alla Cina e all’India), ma su quali basi e prospettive abbiamo edificato le nostre moderne democrazie? E come abbiamo lasciato che si trasformassero non in modelli ma in strumenti di un potere economico sempre più pervasivo, che tende ad annullare e uniformare la volontà dei popoli, affermando un simulacro di democrazia? Siamo ancora in tempo per correggere la rotta verso un’Europa autenticamente democratica e federale, non subalterna all’ingombrante alleato d’oltreoceano e che sia anche rispettosa delle identità nazionali? Queste sono le principali domande che dovremmo rivolgere a noi stessi in vista delle prossime elezioni europee.

Immagine di apertura di Daniel McCullough, Unsplash