Don’t Look Up di Adam McKay è un film realmente visionario, se per visionario s’intende non l’ingenuo sognatore, ma al contrario chi prevede con anticipo il futuro, in questo caso distopico, partendo da una realtà evidente.

Ed è innegabile che la trama sia lo svolgersi di una formidabile rappresentazione del legame quasi indissolubile tra politica, media e scienza, una commistione che qui sfugge dall’uso corretto della ragione per approdare a un’imprevedibile zona d’ombra nella quale i vincenti – per nemesi finale – riescono a perdersi. Ne avevamo visto un altro esempio in Old di M. Night Shyamalan, novel giocata sull’orrore della sperimentazione medica.

La cometa killer è una metafora. Metafora dell’autodistruzione di un mondo che ha tutti i mezzi per vedere ma non sa o non vuole vedere, un po’ come l’iceberg di Freud.  Sullo sfondo una finta democrazia, utilizzando i social in modo spregiudicato, gioca un’inesistente partita che non ha il popolo come protagonista ma come vittima.

In un gioco delle parti rovesciato che dovrebbe far riflettere anche noi, annegati in una pandemia che sembra non avere una fine alla continua rincorsa di un’ipotetica salvezza, i no comet vengono usati dal potere per esorcizzare la paura e ridicolizzare la scienza, finché la verità non si fa strada e allora la narrazione cambia (ahimé, in peggio) e lo stesso potere si appropria di quella scienza con la presunzione della tecnologia di risolvere la terribile minaccia. Troppo tardi, il giocattolo sfuggirà dalle mani del costruttore.

L’anchorwoman eroticamente compiaciuta della propria capacità di condizionare l’audience televisiva, lo scienziato trasformato in influencer e la scienziata incorrotta ridotta a nemica dello status quo, una presidentessa degli Stati Uniti nepotista che è un concentrato delle peggiori caratteristiche dei presidenti americani degli ultimi 50 anni, un tecnocrate «salvatore del mondo» che è la perfetta caricatura del CEO di una famosa multinazionale di cellulari, il conflitto di interessi è l’unica concreta e palpabile verità di una Terra alla deriva.

Evocando quei contestatori delusi incapaci di riconoscere che il sogno non era realtà, rifugiati sotto l’ala protettiva del potere che hanno combattuto, perché la vera natura della questione era ed è ancora oggi il potere, il dramma dispiega in tutta la sua forza simbolica l’immagine di una società, di relazioni, di una cultura in crisi dove la capacità critica viene compressa dall’ideologia tecno-economica e niente è ciò che sembra.

Inutile cercare un happy end in questa storia tra il grottesco e la realtà dove tutto procede sul piano inclinato dell’irrazionale volontà di potenza di personalità al termine della parabola umana, mentre i semplici senza apparenti qualità diventano eroi.

Network, foto di Gerd Altmann, Pixabay

Non un film catastrofista, ma di riflessione, una favola vera che mette a nudo aspettative tradite ma anche una prospettiva di speranza: una democrazia rappresentativa ridotta a spettacolo da talk show; un’economia tecnocratica manipolatrice della scienza; un’informazione pilotata a garanzia delle classi dominanti e non della società civile; un’organizzazione sociale che ha eliminato i corpi intermedi; brillanti scienziati sedotti se funzionali alla politica ma perseguitati quando rifiutano di allinearsi.

Invito alla libertà e alla capacità di interrogarsi contro l’omologazione del pensiero e del sistema dei valori funzionali al controllo sociale, il racconto si conclude con un’ironica apocalisse, dove l’unica conclusione possibile è il sacrificio, piuttosto che l’obbedienza a un impossibile egoistico progetto di sopravvivenza per pochi che si rivela illusorio.

Immagine di apertura di Justin W, Unsplash