Non vi fate abbagliare se nel curriculum di un cantante leggete che si è aggiudicato un disco di platino. Il disco di platino oggi è svalutato. Per ottenerlo basta superare la soglia di 50.000  della propria produzione sonora. Grasso che cola per i tempi che corrono ma una volta il requisito era assolutamente più selettivo. Difatti oggi nessuno parla di disco di diamante che sottintende un autentico miraggio per i tempi che corrono: oltre 500.000 copie. Eppure erano traguardi facilmente raggiungibili dai divi della musica che fu: Domenico Modugno, Mina, Gianni Morandi, Adriano Celentano.

Quando il disco era la merce più fruibile non condizionato dall’ascolto su Spotify, Youtube e affini. Ma quello che più ci interessa di questa considerazione puramente statistica è di secondo grado. I cantanti (artisti è una parola grossa, soprattutto riguardando l’ultimo festival di Sanremo) non godono più dei proventi da diritto d’autore di una volta e dunque si rifugiano al botteghino, ai guadagni nei concerti dal vivo, improntati sulla quantità più che sulla qualità, magari ispirati dal successo di un occasionale 45 giri. E in questo Sanremo rinsalda la quotazione sul mercato.

Foto di GuardiamarinaVeneziano – Opera propria, CC BY-SA 4.0, commons.wikimedia.org

Immaginiamo il manager di Angelina Mango quanto potrà spuntare per le prime date dopo il successo sanremese e che salto di qualità farà la ragazza lucana rispetto al modesto seguito degli anni precedenti. La contraddizione per il pubblico è che di fronte a una gran massa di possibilità per la gratuità dell’ascolto c’è uno sbarramento feroce, quasi classista, di fronte ai prezzi dei biglietti richiesti per i concerti del vivo e soprattutto quando svernano in Italia vecchie glorie certo non all’altezza dei tempi migliori. Per ascoltare Steve Hackett, ampiamente over 70, già componente dei Genesis, svincolato da tempo dal gruppo, all’Auditorium di Roma bisogna sborsare più di 70 euro. Per Capossela nella capitale ne chiedono 50, per Daniele Silvestri 40, con un tasso di maggiorazione notevolissimo rispetto a un decennio fa. Tanti cantautori vivono di fama riflessa e si può dire che cantino le proprie cover visto il tempo trascorso dall’aura delle hit. De Gregori e Venditti non incidono dischi da tempo per mancanza di ispirazione, ma le cifre per assistere ai loro concerti non sono adeguate al loro presente ripetitivo. I prezzi partono da 50 euro e si spingono molto più in su. Organizzatori famelici e agguerrite organizzazioni di prevendita contribuiscono a questo ispessimento dei prezzi, tutt’altro che perequato al tasso d’inflazione.

L’Italia poi è terra di confine, facilmente contendibile dalla invasioni musicali straniere. In effetti legioni di vecchie glorie in disarmo, dimenticate in patria, passano di qui e mettono a frutto e a budget un carisma che si vorrebbe intatto. Di fronte a certe richieste economiche ti verrebbe voglia di compensare il prezzo del biglietto con l’acquisto di una decina di compact disc dell’interprete, quasi la summa della sua intera produzione.

Un acquisto non deperibile e reinvestibile nel tempo anche se il fascino dello spettacolo dal vivo continua ad avere un appeal particolare. In questo mercato incontrollato c’è un settore musicale che ancora si propone a basso prezzo ed è il jazz. Per esempio leggete il programma della Casa del Jazz, nella villa confiscata al tesoriere della mafia Nicoletti e vi accorgerete che per un’esibizione di un esecutore di medio livello, è difficile spendere più di 15 euro, molto meno della musica leggera e anche della classica. Stampa Alternativa negli anni ’70 aveva lanciato lo slogan: “La musica si sente, il biglietto non si paga”. Slogan da rivedere nel riflusso: “La musica si sente e il biglietto si paga carissimo”.

Foto di apertura di Vishnu R Nair su Unsplash