L’Italia si è imbozzolata sul tema-pensioni. Un tormentone dai giorni caldi della Fornero, sogno-miraggio e, contemporaneamente, incubo per milioni di italiani, esodati compresi.

Se ci badate è anche il focus su cui si sono appuntati gli strali di Landini della Cgil quando ha promosso lo sciopero dello scorso 16 dicembre 2021. La motivazione era il mancato dirottamento di risorse su lavoratori e, appunto, pensionati. Le varie successive riforme accatastatesi una sull’altra con il solito mancato spirito di programmazione tipico dei Governi Italiani (Dini-Prodi-Monti-Draghi ma anche Maroni, ministro leghista nel governo Berlusconi, fece la sua parte) hanno portato all’ineffabile risultato che il cittadino italiano tipo all’interno della comunità europea è quello che va in pensione più tardi, mediamente un paio di anni dopo lo status dell’Unione Europea.

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Potremo circoscrivere il raggiunto traguardo a 67 anni e un mese anche se il quadro normativo è spezzettato e più facilmente applicabile caso per caso. E i giovani di oggi possono già essere inconsolabili perché per loro il traguardo sarà fissato a 71 anni dopo oltre 40 anni di lavoro a tempo indeterminato, una vera e propria chicca-rarità visti i tempi che corrono.

Eppure sulla pensione vengono fatti addensare truci sensi di colpa. Come se i pensionati togliessero futuro ai giovani. Come se non fosse colpa dei Governi non creare mercati assunzionali nuovi. Come se non venisse pacificamente riconosciuto che per ogni lavoratore che va in pensione non c’è una new entry che subentra.

Il tentativo di contrapporre le generazioni è puerile. I pensionati riscuotono una pensione per la quale hanno versato lauti contributi. E lo Stato è taccagno nell’esborso di cassa. Gli insegnanti percepiscono la piena liquidazione solo due anni dopo essere andati in pensione. E le pensioni in Italia (anomalia tutta italiana) sono tassate come lavoro dipendente. Come se fosse la stessa cosa. In Germania o in Francia il peso fiscale è ben diverso. Poi c’è l’Ocse, benemerita organizzazione parigina per Paesi ricchi, che ogni tanto butta il suo occhio critico osservando l’esorbitante peso delle pensioni sul bilancio dello Stato italiano. Dimenticandosi che siamo la nazione con la longevità più elevata tra quelle prese in considerazione (seconda al mondo solo al Giappone) e, soprattutto ignorando, che sull’Inps e enti paritetici, grava il peso dell’assistenza oltre a quello della previdenza.

Dunque quel 15,4% di riparto all’interno del bilancio (cinque punti in più della media europea) va depurato di almeno 3,4, rientrando in uno scarto fisiologico del tutto accettabile. E poi il calcolo utilizzato riguarda pensioni al lordo dunque si può tranquillamente limare almeno un paio di punti percentuali. Appunti ingenerosi e strumentali considerando che un terzo degli assegni pensionistici è sotto i mille euro. Se combiniamo questo dato con il -2,9% degli stipendi dei lavoratori italiani dal 1990 ai giorni nostri, possiamo concludere che questo è un Paese senza presente per chi lavora e con scarso futuro per chi andrà in pensione.