In questo anno appena passato, abbiamo imparato alcune importanti lezioni per il futuro dell’umanità e dei singoli paesi. La più eclatante riguarda la rilevanza della ricerca sotto due aspetti: la sua importanza per decisioni politiche avvedute e la sua redditività sia economica sia sociale. Infatti, forse per la prima volta a livello planetario, vi è stato il ricorso alle conoscenze scientifiche per modellare le decisioni strategiche per contenere gli effetti funesti della pandemia. I risultati sono stati relativamente positivi grazie alle azioni mitiganti e i paesi che hanno ignorato le indicazioni (USA e Brasile per esempio) hanno dovuto pagare un tragico tributo per la protervia.

Il secondo aspetto è invece ben dimostrato dal clamoroso successo della messa a punto in un tempo record di vari vaccini ben operativi. È la seconda volta che si inaugura un’attività cooperativa finalizzata ad un obiettivo strategico di questa portata; la prima fu promossa per ragioni belliche: il “Progetto Manhattan”, che coinvolse 130.000 ricercatori e tecnici negli USA ed in parte in Canada e UK per raggiungere la realizzazione della bomba atomica. Nel caso dei vaccini tutti i paesi avanzati hanno dedicato ingenti risorse economiche e la comunità scientifica di riferimento ha operato scambiando le informazioni e le nuove conoscenze in modo da ottenere in brevissimo tempo un risultato strategico per l’umanità che sembrava inattuabile fino a pochi mesi fa.

La lezione penso sia stata compresa da tanti, ora la speranza è che, nelle scelte che il nostro Paese è chiamato a fare per garantire una ripartenza equilibrata ed efficace, la centralità della ricerca sia condivisa ed opportunamente incentivata. Questo significa investire in maniera oculata su due versanti: l’istruzione superiore e la ricerca innovativa.

Purtroppo il passato anche recente non è molto incoraggiante. Nella Fig. 1 sono riportati, per i Paesi EU28, i dati relativi alle percentuali di persone (fra i 30 e 34 anni) che hanno completato il ciclo di educazione terziaria. L’Italia è al penultimo posto (con il 27,8%), superata in peggio solo dalla Romania (24,6%). Si tenga conto che vi è stato un netto miglioramento rispetto al 2002 quando la percentuale italiana era solo il 13,1% (12,0 degli uomini e 14,2 delle donne). Nel 2016 abbiamo raggiunto l’obiettivo del raddoppio dei laureati (26,2%), ma restiamo ben lontani dalla media Europea per il 2020 (40%). Per altro anche nella classifica OCSE 2015[1], che considera un range di età più largo (25-34 anni) siamo in ultima posizione, dietro a nazioni quali Cile, Turchia e Messico.

Fig. 1 – Percentuale di persone fra 30 e 34 anni che hanno completato il ciclo di educazione terziaria. Fonte: EUROSTAT “Europe 2020 education indicators in 2018” – 72/2019 – 26 April 2019

Il recente Rapporto sulla spesa per la pubblica istruzione 2017[2] sottolinea come, per l’istruzione terziaria, siamo al penultimo posto in Europa per gli investimenti universitari, che tra il 2010 e il 2015 sono calati di oltre 600 milioni di euro; l’Italia è all’ultimo posto in EU28 con solo lo 0,3% sul PIL (0,7% è la media EU) limitatamente alla spesa pubblica per l’istruzione universitaria, mentre è penultima in Europa per l’istruzione terziaria nel complesso (considerando anche la spesa privata), con una spesa media in percentuale di PIL pro capite del 5,3 % a fronte di un 10 % medio per la EU. «Una possibile ipotesi – si riferisce nel Rapporto – è che la bassa spesa per pubblica istruzione si debba alla struttura demografica della popolazione, ossia che l’Italia spenda meno dei partner europei poiché ha meno giovani».

Insomma si è creato, in Italia, un ciclo vizioso che vede da una parte un sistema produttivo in gran parte composto da aziende con basso livello tecnologico e dunque poco ricettivo nei confronti dei nuovi laureati, dall’altra lo Stato che disinveste sia in R&S, sia nell’educazione terziaria. Questo genera tre risultati negativi: disincentiva i giovani diplomati dall’iscriversi all’università, si ha un numero di laureati e dottori della ricerca pari alla metà o meno rispetto ai Paesi più avanzati e si ha un alto tasso di disoccupazione fra i laureati (stimato al 15%). Infine occorre segnalare un’ulteriore stortura del sistema: l’ISTAT[3] sottolinea che vi è stato un forte aumento tra 2013 e 2017 del numero di diplomati (+32,9%) e laureati (+41,8%) che si sono trasferiti all’estero, nel solo ’17 più di 60.000. Ovviamente molti di loro si sono formati in materie importanti per lo sviluppo economico e sociale, incluso, come purtroppo abbiamo imparato in questi mesi, nel settore delle scienze della vita e della salute in particolare. Se si considera che il costo medio in Italia è di 164 mila euro per formare un laureato e 228 mila per un dottore di ricerca, è come se regalassimo all’estero decine di migliaia di Ferrari ogni anno!

Fig. 2 Evoluzione del budget in Ricerca e Sviluppo (dati OCSE)

Nella Fig. 2 sono riportate[4]  le evoluzioni dei budget nella Ricerca e Sviluppo (R&S) per i Paesi G8 e per la media dell’UE; purtroppo per l’Italia si rileva un costante decremento (a prezzi costanti 2007) fra il 2007 e 2017, a differenza di quanto avvenuto per gli altri grandi Paesi. Vi è anche da tener conto che ben 5 nazioni (Italia, Regno Unito, Canada, Francia e USA) hanno tuttora il budget della R&S inferiore al valore del 2007, prima della grande crisi, nonostante siano passati 10 anni. Quindi gli investimenti in R&S sono ancora troppo bassi; per esempio, nel 2015, l’Italia ha speso €21,9 miliardi (60% provenienti dal settore pubblico) in R&S, sottolineando che, in controtendenza rispetto agli altri grandi Paesi europei, vi è la minor incidenza degli investimenti privati nel settore R&S. Per effettuare un confronto con gli altri Paesi europei con dimensione simile alla nostra notiamo che la spesa del Regno Unito raggiunge circa € 30 miliardi (meno del 50% provenienti dal pubblico), la Francia arriva ad una spesa più che doppia rispetto all’Italia con € 48 miliardi (di cui solo il 30% proviene dal pubblico). Risalta in positivo il caso della Germania dove, grazie al deciso impegno degli ultimi governi la spesa pubblica in R&S è passata dai circa € 17 miliardi nel 2005, ai circa € 56 nel 2017, con una crescita progressiva e costante (a prezzi correnti) e, grazie anche il significativo concorso delle imprese, ciò permette alla Germania di avvicinarsi alla soglia del 3% di spesa R&S sul PIL.

Fig. 3 – Numero di citazioni per ricercatore: i 10 Paesi al top[5]

A fronte di questo panorama sconfortante, si riscontra positivamente quello che alcuni commentatori hanno chiamato il “paradosso italiano”: pochi, non ben pagati e con scarse risorse per le loro ricerche, i ricercatori italiani riescono a primeggiare. L’Italia è in ottava posizione nel mondo per numero di lavori scientifici, in sesta per numero di citazioni dei lavori prodotti, in terza per numero di citazioni per lavoro ed in settima posizione per l’H index. Molto interessante è rilevare che per il numero di citazioni per ricercatore, nel periodo 1996-2016, l’Italia è nella prima posizione fra i 10 Paesi al top mondiale, come è riportato nella Fig. 3.

Abbiamo già in precedenza sottolineato l’ampiezza del fenomeno dell’espatrio di molti dei nostri giovani laureati, dopo aver avuto esperienze scoraggianti nel nostro Paese; occorre aggiungere che, contemporaneamente, assistiamo all’irritante fenomeno che vede l’Italia versare circa 9 miliardi ai fondi dell’UE per la ricerca e recuperarne, attraverso i suoi gruppi di ricerca, solo i 2/3. Per cui un Paese strutturalmente debole sul fronte della R&S, come l’Italia, di fatto finanzia quelli più forti nel contesto europeo, proprio a causa delle sue debolezze (pochi laureati, pochi ricercatori, esiguo numero di giovani nei laboratori pubblici e privati, assenza di programmazione, scarsa cooperazione fra ricerca pubblica e ricerca privata).

Il panorama che abbiamo delineato è preoccupante, certo hanno influito il lungo periodo di crisi, l’enorme debito pubblico nazionale che impedisce grandi investimenti, le debolezze strutturali del Paese, la composizione e le vocazioni del sistema produttivo. Occorre dire anche però che, dopo le riforme promosse dal Ministro Ruberti fra fine Ottanta ed inizio Novanta, non vi è più stata una significativa attenzione verso il sistema R&S ed universitario del Paese; anzi la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha conferito alle Regioni una vasta gamma di funzioni relative alla ricerca e alle relative risorse da assegnare, in molti casi ha aumentato confusione programmatica e ritardi nella spesa, causando spesso il non pieno utilizzo di tutte le risorse allocate dalla UE.

Sarebbe auspicabile che cittadini, sistema produttivo e forze politiche si rendessero conto dell’urgente importanza strategica per l’Italia di invertire il trend ed iniziare di nuovo ad investire nel sistema R&S e nelle università del Paese e che a questa consapevolezza seguissero azioni precise di riforma. Come si è recentemente proposto[6], è il momento di promuovere davvero lo sviluppo del Paese. Abbiamo una chance formidabile proprio ora, non possiamo vanificarla; occorre oculatamente utilizzare parte dei fondi del Next Generation EU per varare un Piano Straordinario per la Ricerca che, da una parte, permetta un aumento graduale delle risorse economiche ed il reclutamento di giovani ricercatori in particolare sulle linee prioritarie di ricerca stabilite a livello europeo e nazionale e, dall’altra, incrementi la crescita dei più significativi laboratori con nuovi investimenti programmati in infrastrutture e attrezzature di ricerca.

Un obiettivo ragionevole, graduale e commisurabile con le condizioni economiche attuali del Paese potrebbe essere quello di incrementare di almeno 0,1% all’anno la quota di PIL dedicata al settore della R&S e di 0,1% all’anno la quota di risorse per il sistema universitario, con un impegno costante di ca 3 Mld per ognuno dei prossimi 3 anni. In parallelo andrebbe promossa la divulgazione e la cultura scientifica, aumentando l’accettabilità sociale del lavoro della ricerca pubblica e privata. Inoltre, in parallelo e senza significativi costi aggiuntivi, occorrerebbe, con caratteristiche di programmazione centrale ed effettivo coinvolgimento della comunità scientifica, riformare la governance del sistema R&S varando finalmente un’Agenzia nazionale, di cui si discute da tempo, in grado di coordinare e ripartire le risorse nelle aree più significative sia scientifiche sia produttive e supportare con priorità la crescita del sistema nel Meridione. Infine sarebbe opportuno intervenire direttamente o indirettamente (p.es. detassazioni, incentivi, snellimento delle procedure burocratiche) sul maggior collegamento del sistema R&S con il sistema produttivo, sulla ricerca cooperativa su obiettivi competitivi (a iniziare dalla sanità) e sulla promozione del trasferimento tecnologico attraverso un fertile ecosistema di spin-off in stretto contatto con atenei e centri di ricerca.

[1] http://ec.europa.eu/eurostat/web/education-and-training/data/main-tables

[2] Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani “Rapporto sulla spesa per la pubblica istruzione 2017” 29 luglio 2019

[3] ISTAT “Report sulla mobilità interna e le migrazioni internazionali della popolazione residente” – Dicembre 2018

[4] OCSE “Main Science and Technology Indicators Database” – Agosto 2019

[5] Elaborazione autonoma su dati Scimago e OCSE (2018)

[6] Convegno Nazionale del Consorzio Interuniversitario “I.N.B.B.”, Roma 24 e 24 ottobre 2019