L’Italia dovrebbe essere uno dei maggiori beneficiari dei fondi UE destinati al rilancio delle economie degli Stati membri per «riparare i danni economici e sociali causati dalla pandemia di coronavirus» come recitano le comunicazioni ufficiali della Commissione europea.

Ma il condizionale è d’obbligo per molte ragioni.

Infatti se l’Unione europea ha mostrato tutti i suoi limiti nella gestione “sanitaria” della pandemia, in particolare per quanto riguarda i vaccini, si è al contrario dimostrata audace e coraggiosa sul piano economico, adottando delle decisioni in materia di bilancio, in occasione del Consiglio europeo del luglio 2020, che sono assolutamente senza precedenti, prevedendo un piano di rilancio dell’economia europea degno delle più grandi potenze mondiali.

Foto di Images Money da Flickr

Ma se da un lato l’Italia è riuscita ad ottener la fetta più consistente dei fondi “promessi”, in virtù del fatto che siamo stati primi ad essere maggiormente colpiti dalla pandemia ma anche grazie ad una grandissima capacità negoziale del nostro paese, dall’altro non sembra essere veramente pronta a riceverli, e soprattutto non sembra essere per niente conscia del rischio di NON riceverli e delle conseguenze che questo potrebbe avere su tutto l’impianto della costruzione europea.

L’Italia infatti dovrebbe essere il primo beneficiario del piano con 191,5 miliardi di euro di sostegno, di cui 68,9 miliardi di euro in sovvenzioni e 122,6 miliardi di euro in prestiti, ma i fondi sono accompagnati da una grande responsabilità per il nostro Paese, il cui successo nello sfruttamento di questa occasione va bene al di là di un esclusivo risultato economico.

Ma gli ostacoli sono molti, a cominciare dalla complessità intrinseca dei meccanismi europei e la difficoltà, o le carenze, della loro rappresentazione nei media, insieme ad una terminologia oggettivamente ostica e spesso storpiata che contribuiscono al fumo e alla tendenza alla mitizzazione che aleggia su questo intero processo, mentre sembriamo navigare a vista tra “recovery plan”, “recovery fund”, “Next generation EU” detto NGEU, oppure “Next generation Italia”, e ancora “SURE”, “Piano di rilancio” e finalmente “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” detto amicalmente PNRR….

Paradossalmente a questo contribuisce anche l’immagine salvifica che il nostro attuale Presidente del Consiglio Draghi porta con sé, sia per la sua storia personale, per il processo che lo ha portato a Palazzo Chigi, per il peso che ha sui mercati finanziari, che per l’autorevolezza di cui gode tra i partners europei, e tutto questo lascia comunemente pensare che “tanto ci penserà Draghi” mentre noi ci perdiamo tra mascherine, riaperture, orari di coprifuoco etc.

Mario Draghi – Foto di Harri Vick da Pixabay

E invece ci dovremmo pensare di più noi perché non tutto potrà essere “fatto” da Draghi ma sarà necessario un rapido coinvolgimento a tutti i livelli della società a partire dal mondo politico, quello imprenditoriale, del lavoro, dell’associazionismo etc. per ‘aiutare Draghi ad aiutarci’.

Per fare questo sarà però necessario riconoscere correttamente il ruolo che ricopriranno in questo processo sia i partners europei che le Istituzioni dell’Unione che detteranno regole e scadenze ed effettueranno verifiche a cui non siamo abituati e a volte perfino allergici se operate da funzionari italiani, figurarsi se da funzionari portoghesi rumeni o olandesi.

E prima di aspettarsi tutti questi soldi sarà anche necessario avere coscienza e porre maggiore attenzione in particolare agli ostacoli che ancora persistono.

A cominciare per esempio dal fatto che mancano ancora sei paesi nella lista di quelli che hanno approvato a livello nazionale il Piano Next Generation Eu, che prevede l’aumento delle risorse proprie del Bilancio UE, e il Commissario europeo al Bilancio Johannes Hann ha invitato nei giorni scorsi i governi di Austria, Finlandia, Polonia, Paesi Bassi, Romania e Ungheria ad “accelerare” i loro processi di approvazione.

Questi ritardi potrebbero infatti avere un impatto sull’erogazione della prima tranche – il 13% di prefinanziamento – delle risorse che potrebbero arrivare già a luglio perché, nella strategia della Commissione, è importante che le prime risorse siano messe a disposizione rapidamente affinché la ripresa possa prendere slancio già nella seconda metà di quest’anno.

E di ostacoli ce ne sono anche altri perché persiste forte il timore da parte di vari Stati, tradizionalmente ostili all’idea di produrre debito comune, che questo meccanismo di solidarietà possa diventare permanente, andando contro la loro avversione all’idea di mettere risorse nazionali per aiutare altri Stati membri, specie quelli considerati meno meritevoli.

È noto infatti che l’economia italiana sia da anni un osservato speciale, non solo per il suo elevato tasso di debito pubblico, il più alto tra i paesi UE, ma anche per la tradizionale difficoltà che il nostro paese incontra nell’utilizzo dei fondi europei.

Come risulta da un recente studio commissionato dalla Commissione Industria del Parlamento europeo in cui si legge che la sfida per l’utilizzo dei fondi europei per il rilancio economico post COVID «è aggravata dal fatto che alcuni Stati membri in particolare Spagna e Italia, sono notevolmente in ritardo negli impegni e nei pagamenti del bilancio pluriennale comune 2014-2020. Non è quindi stravagante chiedersi – prosegue lo studio – quanto sia ragionevole aspettarsi una rapida accelerazione del numero di buoni progetti con una visione trasformativa a lungo termine rispetto a quelli del nuovo bilancio pluriennale».

In pratica i ricercatori del Parlamento europeo si chiedono molto palesemente se questi Stati che sono quelli che più hanno bisogno di questi fondi per salvare le loro economie non siano anche gli stessi che rischiano di far saltare tutto il sistema.

Ed è proprio di questo di cui dovremmo avere coscienza soprattutto se abbiamo a cuore le sorti del progetto europeo.

Infatti se l’Europa vince quando rappresenta una speranza, è del tutto evidente che l’attesa di questa “manna” rappresenta in sé una grandissima speranza ma in assenza di una consapevolezza delle responsabilità e dei rischi impliciti, il risveglio alla realtà potrebbe rivelarsi particolarmente doloroso.