Ha suscitato un certo clamore la sentenza con la quale il 27 maggio scorso la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la violazione dei diritti di una presunta vittima di stupro collettivo nel caso J.L. contro Italia (ricorso n. 5671/16).

La vicenda è una di quelle di cui non vorremmo mai leggere, ma che sono purtroppo frequenti.

Una ragazza vittima di uno stupro da parte di sei uomini al termine di una serata nel corso della quale i freni inibitori cadono, complice un consumo eccessivo di bevande alcoliche. In primo grado i presunti stupratori vengono condannati, mentre in appello vengono assolti.

Ora la Corte condanna l’Italia non per il merito della vicenda, ma perché nel testo della sentenza d’appello si rinvengono affermazioni allusive a una generale condotta “ambigua” della ragazza in fatto di morale sessuale.

Insomma, la presunta vittima dello stupro sarebbe una che … se l’era andata a cercare.

Argomento spesso ricorrente a commento di queste vicende, ma che giustamente la Corte europea ha ritenuto intollerabile in una sentenza, condannando l’Italia e riconoscendo alla ricorrente 12 mila euro di danni morali.

Questa è indubbiamente la sostanza di quanto accaduto.

Ma a leggere la sentenza della Corte per intero, si rimane invero alquanto perplessi.

La Corte europea ha infatti esplicitamente affermato che la sentenza italiana viola le garanzie di rispetto della vita privata della ricorrente (di cui all’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani) in quanto espressione di un atteggiamento dei giudici che si traduce nella cosiddetta vittimizzazione secondaria della donna, che alla fine è vittima due volte: una prima del presunto stupro, una seconda della procedura giudiziaria.

Foto di Nino Carè da Pixabay

Ma questa importante affermazione della Corte europea è però parzialmente contraddetta dal testo della decisione di Strasburgo letto nel suo insieme. Perché la Corte ha riconosciuto invece che l’intero procedimento, della cui complessiva conduzione la donna invero si doleva, si era invece svolto in maniera sostanzialmente corretta. Per cui, alla fine, a voler credere alla ricostruzione della Corte europea, non si comprenderebbe come salti fuori una sentenza che contiene affermazioni quali quelle che la Corte stessa censura.

Non resta che concludere che sia la decisione italiana, sia quella della Corte europea, mostrano, se ce ne fosse bisogno una volta di più, come il tecnicismo giuridico accusi pesanti limiti, tutte le volte in cui si confronti con situazioni delicate che coinvolgono profili etici.

E rispetto alle quali occorre una presa di posizione netta e decisa a presidio di certi valori.