Lo scorso 11 gennaio la Corte europea dei diritti dell’uomo ha reso la sua decisione nel caso Freitas Rangel contro Portogallo (ric. n. 78873/13). Il ricorrente era un famoso giornalista portoghese condannato in patria per certe sue dichiarazioni ritenute diffamatorie.

Egli, infatti, in occasione di una audizione parlamentare, aveva affermato che spesso i giornalisti in Portogallo si comportavano in maniera non conforme alla dignità della loro professione e citava quella che secondo lui era una diffusa pratica, ossia quella di quei giornalisti che accettavano di pubblicare notizie diffuse da magistrati, i quali, a loro volta, usavano la loro carica e i loro poteri per finalità politiche.

Prontamente, due associazioni portoghesi di magistrati, agirono contro il Freitas Rangel e ne ottennero la condanna per diffamazione in tutti i gradi di giudizio.

Il giornalista, ritenendo violato l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che notoriamente protegge il diritto alla libertà d’espressione, presentò ricorso alla Corte europea, ma morì poco dopo. La causa venne proseguita dalle figliole in sua vece.

La Corte ha deciso nel senso della violazione dell’articolo 10.

Mi pare che la decisione sia senz’altro da approvare, quanto all’esito, anche se l’iter logico seguito dalla Corte si presta ad alcune valutazioni critiche.

La Corte sembra infatti basare la sua decisione su tre differenti ragionamenti, progressivamente proposti quasi ad abundantiam.

Secondo il primo, Freitas Rangel avrebbe reso dichiarazioni nelle quali riferiva proprie opinioni e valutazioni e non dati di fatto, peraltro nel corso di un pubblico dibattito in Parlamento su un argomento di grande interesse pubblico. Non ci sarebbe stata dunque, per tutti questi elementi, alcuna diffamazione.

Secondo un’altra linea argomentativa, la Corte fa valere che, seppure la protezione della onorabilità altrui è, a termini dell’articolo 10 della Convenzione, una legittima causa di limitazione del diritto alla libertà d’espressione, il diritto di una associazione alla tutela della propria reputazione non è paragonabile, quanto all’intensità della protezione che merita, allo stesso diritto quando rivendicato da un singolo, per il quale l’onorabilità è un bene personalissimo e irrinunciabile.

In terzo luogo, la Corte ha fatto valere l’idea della sproporzione tra il reato ipotizzato e la sanzione comminata, francamente eccessiva.

Ora, mi pare che ciascuno degli argomenti sopra sintetizzati sarebbe stato sufficiente, anche da solo, a fondare la decisione della Corte.

Questa sovrabbondanza di motivazioni lascia perplessi. Non solo per una questione di stile argomentativo. Ma perché mostra, mi pare, un malcelato disagio della Corte a trattare la questione della diffamazione quando siano coinvolti giornalisti da una parte e poteri dello Stato dall’altra. Che poi, a ben guardare, è uno dei profili più delicati dell’intera problematica, come dimostra anche la situazione italiana.

Ciò non fa che confermare l’opinione, che ho più volte espresso, secondo cui le soluzioni per certe questioni fondamentali in tema di garanzia dei diritti hanno natura intrinsecamente politica e non solo giuridica o giudiziaria e, come tali, devono maturare nel tempo, attraverso complessi processi sociali dei quali le decisioni giudiziarie, anche quando provengano da autorevoli consessi, possono solo costituire uno degli elementi.