Il fantasma del carbone si aggira ancora per l’Europa, e mette in crisi le politiche virtuose che tendono a ridurre le emissioni di CO2, le principali responsabili dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici.

Gli obiettivi che si è data l’Unione Europea sono molto impegnativi, forse irrealizzabili. Li ricordiamo: ridurre almeno della metà (del 55% per la precisione) le emissioni di gas serra entro il 2030, e ottenere la cosiddetta “neutralità climatica” nel 2050.

L’impatto ambientale zero è un po’ come la santità: è cosa buona aspirarvi, ma raggiungerla è quasi impossibile. Però bisogna provarci, adeguando le nostre politiche e i nostri comportamenti alla sfida del ventunesimo secolo.

Gli ultimi dati però non sono incoraggianti.

Secondo i ricercatori indipendenti di Investigate Europe e sulla scorta dei dati analizzati dall’Institute for new economic thinking, ripresi in Italia da Openpolis, l’Europa è molto indietro sulla tabella di marcia. Un po’ per il forte handicap di partenza (la riduzione delle emissioni di CO2 tra il 1990 e il 2006 è stata molto limitata: fra l’1 e il 2,5 per cento nei paesi dell’Unione), un po’ perché lo slancio ambientalista dell’ultimo decennio è ancora frenato da comportamenti contraddittori.

Mentre da un lato i governi e la Commissione europea cercano di favorire – con incentivi economici – la transizione ecologica e la riconversione industriale, dall’altro continuano a finanziare imprese che utilizzano il carbone come principale fonte d’energia. E non si tratta di pochi spiccioli, ma di 140 miliardi l’anno, secondo i dati del quadriennio 2016-2019. La Germania, che è in testa alla classifica degli euroipocriti, stanzia 33,1 miliardi l’anno per aziende che impiegano combustibili fossili: l’87% di questa cifra attraverso tagli alle imposte.

Anche l’Italia non scherza. E dopo la Brexit – con l’addio del fumoso Regno Unito – ci ritroviamo ora al secondo posto in graduatoria, con 18,3 miliardi l’anno di contributi a imprese che fanno aumentare le emissioni di gas serra.

Segue a breve distanza la Francia; più indietro Belgio e Polonia, che guida quella fascia di paesi – il gruppo di Visegrad – più ostile alla riconversione ecologica. È lì, al Nord-Est europeo, che pur senza grandi incentivi fiscali il carbone continua ad essere la principale fonte d’alimentazione dell’industria pesante.

Ma il problema riguarda un po’ tutti. Ben 19 Stati su 27 sono oggetto di procedure d’infrazione per aver violato le norme comunitarie, e fra questi anche Irlanda, Olanda e Spagna. Le procedure d’infrazione aperte per questioni ambientali sono un quarto del totale.

Ed è un peccato. Perché l’Europa continua a investire moltissimo nelle politiche per ridurre le emissioni nocive, responsabili del climate exchange.

Il principale veicolo è l’ETS, l’Emission Trading System, che prevede la limitazione e lo scambio di quote delle emissioni di CO2 che superano un limite stabilito. Un meccanismo che ricorda un po’ quello delle famigerate quote latte, con la differenza che in questo caso l’obiettivo non è quello di evitare la sovrapproduzione, ma di ridurre la percentuale delle emissioni “cattive”.

Sono più di undicimila gli impianti dell’industria manifatturiera e del settore energetico (ma è coinvolto anche il traporto aereo, per l’inquinamento da carburante) che partecipano all’ETS europeo. Un sistema che coinvolge – ed è un precedente interessante – anche tre paesi al di fuori dell’Unione: Islanda, Norvegia e Liechtenstein.

Il meccanismo è semplice: se le emissioni di un impianto o di una compagnia aerea superano il tetto previsto, l’azienda è costretta ad acquistare quote da altri. Se riesce invece a ridurre le emissioni, accumula un credito che può vendere sul mercato. E così chi inquina subisce una penalità, chi rinuncia a inquinare ne ricava un vantaggio.

Finora però il sistema dello scambio di quote non ha prodotto i risultati sperati. E il costo sempre maggiore del combustibile fossile non sembra scoraggiare l’uso di energia “sporca” da parte di alcuni paesi e di grandi gruppi industriali.

“Il futuro è elettrificare tutto, rinunciare al carbone – ha dichiarato Roberto Cingolani, ministro della Transizione Ecologica – Ma che succede se gli altri non lo fanno?”  E il punto è proprio questo. L’Unione Europea è responsabile del 9 per cento delle emissioni di gas serra a livello mondiale. La Cina, da sola, del 28 per cento. Tre volte tanto. Gli Stati Uniti del 15 per cento. L’Italia è poco al di sotto dell’1 per cento, circa un decimo della piccola Europa.

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E siccome l’inquinamento non riconosce confini né barriere, il rischio è quello di creare isole relativamente felici, circondate da giganti assai meno virtuosi. Con un paradosso: la riconversione ecologica costa, e a volte ne beneficiano proprio i paesi più inquinanti. Ricorderete il boom delle energie alternative, che portò gli italiani ad acquistare milioni di pannelli solari. Spesso di fabbricazione cinese.

Per questo l’unica via – per quanto impervia – è quella di raggiungere accordi a livello mondiale. E cercare di rispettarli. Il ritorno degli Stati Uniti di Joe Biden ai tavoli sul clima è un segnale positivo, ma non basta. E il capitolo dei gas-serra è solo uno dei tanti problemi da affrontare su scala planetaria. Ci sono le cattive abitudini alimentari, responsabili di danni irreparabili all’ambiente, e c’è la tendenza all’antropizzazione, la nascita di megalopoli e grandi agglomerati super-inquinanti che sottraggono territori preziosi alle coltivazioni e alle foreste.

Bisogna agire, senza perdere tempo in parole, e ricordando, come ama ripetere Filippo Sotgiu, portavoce del Wwf Italia, che durante la pandemia di Covid 19 “il clima non è andato in vacanza”. E il conto può presentarlo ben prima del 2050.