Non coltiviamo l’utopia di una letteratura che poggi sulla fantasy, scissa dal reale, dall’attualità, dalla politica, più in generale dalle vicende terrene.

Perché non viviamo nel mondo dell’iperuranio. Però da almeno venti anni i libri di maggior successo tra i romanzi italiani si appoggiano a un genere che non si discosta troppo dall’auto-fiction. Una comoda stampella mainstream in mancanza di una solida ispirazione? Una pista probabile! Si prende una biografia, la propria o una vicenda di cronaca, e la si rielabora con gli orpelli della letteratura, un restyling funzionale al successo.

L’utente, il lettore, occhieggia a una vicenda che in parte conosce e che gli viene riproposta con uno stile suadente, fuori dalla provvisorietà del racconto quotidiano di giornali e televisioni. Se usate questo criterio di selezione – fateci caso – l’80% dei libri italiani da classifica nascono con questo impianto. Tale è il metodo usato da Teresa Ciabatti (con un sovrappiù di ricamo retorico: sarà lei o una lei ritoccata quella dell’ultimo libro, sonoramente bocciato dalla selezione per lo Strega?), da Nicola Lagioia (che ripercorre un sordido fatto di cronaca), da Emanuele Trevi (che si diffonde sulla perdita di due cari amici, sconosciuti ai più riabilitandone la figura), per non parlare di Melania Mazzucco.

Non pensiate che adoriamo un impraticabile recinto di letteratura pura. Ma se pensiamo a qualche nome del passato (Moravia, Berto, Volponi) lo scenario metodologico di costruzione del romanzo partiva da altre basi. Questa è indubbiamente una moda che viene da vicino, ispirata dal clamoroso successo dei libri di Emmanuel Carrère. L’ultimo suo parto – Yoga – è talmente auto fiction che la moglie si è sentita in dovere di denunciarlo perché ha ripercorso falsamente a suo dire alcune fasi del loro intricato legame coniugale. In definitiva lo scrittore italiano usa i fatti propri o eventi di cronaca per rimanipolarli a proprio uso e consumo. Una piattaforma di utilizzo più facile e più comoda di una elaborazione vergine.

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Non muoviamo accuse ma stendiamo una constatazione che abbraccia tutta una generazione. Dissolta una forte tensione politica, sbriciolato il senso di comunità, perse molte idealità, il gruppo, il gregge letterario si arrangia con questa comoda deriva. Che guarda molto alla televisione, al cinema, alle serie. Contaminazioni di genere in cui la letteratura – pensiamo a quella di una volta, ma senza rimpianti – fa la parte dell’ultima ruota del carro.

Nel paese in cui tutti scrivono ma pochissimi leggono il livellamento culturale (per definizione in basso) contempla anche le marce basse e comode di un milieu letterario che non è più congrega intellettuale ma strizzatina d’occhio compiacente ai gusti del pubblico e alla commercialità della distribuzione. Così si sfornano libri che resistono tre mesi sulle vetrine delle librerie più pregiate ma scompariranno agli occhi della storia. Tanto più che si è dissolto anche il concetto di critica letteraria. E i giornalisti che recensiscono l’auto fiction sono quelli che il giorno dopo, si addentreranno nella scrittura di un romanzo. Pronti a essere ben giudicati dai colleghi.