La discussione sul genere è degenerata nella finta rivoluzione linguistica dell’abolizione del maschile e del femminile. Nel Paese che non ha mai avuto rivoluzioni (l’Italia, e i risultati si vedono) la corsa in avanti della cancel culture ha creduto di segnare un punto importante con la definizione della desinenza schwa al posto della distinzione presuntamente sessuale di aggettivi e loro derivati.

Così ci siamo sorbiti un’intervista sul Venerdì di Repubblica dove, per evidente volontà, del personaggio in questione, un asterisco concludeva neutralmente gli stessi termini. Invece di buona o buono: buon* I linguisti però ci insegnano che il linguaggio parlato è il linguaggio dominante e non sarà per volontà delle minoranze che un vezzo lessicale s’imporrà al mondo.

Il sempiterno Zingarelli si sforzava di rimanere al passo dei tempi finché carta dettava legge con l’inserimento dei termini, anche giovanilisti, che entravano di gran carriera nella prassi della comunicazione. Fa persino nostalgia rievocare la breve vita dell’epiteto “matusa”, girato come un insulto a padri e nonni. E persino entrato nel catalogo vintage “Scialla”, evocato soprattutto da un fortunato omonimo. Ascese linguistiche di breve vita e destinate a precoce obsolescenza.

Ma qui c’è dietro altro e con pericolosa aggressività. Come se l’approvazione, più che legittima della legge Zan, passasse attraverso la scorciatoia linguistica dell’abolizione dei sessi. Un’aspirazione che viene da lontano, che sa di frustrazione e di post-ideologia. L’Italia imita venti di puritanesimo che vengono dagli Stati Uniti e da antiche rivalse. La lingua non può imporsi alla socialità, al pensiero. Segue e non procede. Si uniforma e non modula. A meno che una vezzosa componente modaiola non pretenda il “tutto e subito”.

Qui non c’è alcuna pretesa di difendere l’eterosessualità ma piuttosto la lingua. Dunque è in discussione il modo e la forma e non il merito della questione. Facciamo un esempio concreto. C’è chi propone di restituire agli inferi e all’abisso della negazione la parola “razza”, peraltro scandita con precisione anche nel dettato costituzionale. Si può eliminarla quando il razzismo, con episodi continui di cronaca (v. politici della Lega dal grilletto facile versus extra-comunitari di colore) viene continuamente alla ribalta?

Presupponiamo che la cancellazione del termine elimini lo stigma, la discriminazione, gli episodi verificati sul territorio? Dunque il suo mantenimento in vita è puramente strategico, situazionale, tattico. Partendo dall’assunto comune che le razze non esistono ma facendo i conti con chi ritiene di evocarle, demagogicamente, ai fini di puro marketing politico. Così la pretesa di liberarci del fascismo quando nella società circolano ancora purulenti detriti di un’ideologia che giustifica la barriera dell’anti = antifascismo.

Naturalmente alla finta rivoluzione fa comodo unirsi e partecipare nel nome di un finto progressismo. La casa editrice Effe Qu ha entusiasticamente adottato l’abolizione aggettivale del genere nei propri libri che immaginiamo illeggibili, vittime di un imperdonabile obbrobrio grafico. L’uomo come genere ha sicuramente molti peccati da farsi perdonare ma bisogna riconoscere alla lingua un suo percorso autonomo, altrimenti i linguisti che funzione avrebbero? Forse quella di supplenti e di reggitori servili di un’ideologia? No, la lingua è semplicemente strumento d’uso e non serva supina di revanscismi che meriterebbero ben altri percorsi e ambiti.