Ce ne parlano Raffaele Fiengo, Dino Pesole, Marco Zatterin, Lorenzo Consoli, Paolo Levi, Christophe Leclercq e Nicolas Gros.

 

Quante volte ci siamo detti o abbiamo sentito dire: è tutta colpa dei giornalisti. Ma cosa si cela dietro questa generica e facile espressione di rabbia e delusione verso una intera categoria, nei confronti della quale evidentemente si nutrono delle aspettative.

Sicuramente il giornalismo è in crisi, così come lo sono una gran parte di imprese editoriali, anche se nel primo caso si tratta più di una crisi di identità e nel secondo più di una crisi economica, come è stato ben illustrato in alcuni articoli e interviste già pubblicati su questo stesso sito.

Inoltre è chiaro che le conseguenze di queste crisi vanno ben oltre l’ambito editoriale, se si considera che un buon sistema informativo è alla base del buon funzionamento di un sistema democratico e anche per questo molti si interrogano su quali siano le ricette per superare questa fase.

Negli Stati Uniti per esempio la creazione di alcune “fondazioni” basate su un patto tra lettori e giornalisti hanno permesso di salvare alcune testate locali, ma non è chiaro se queste esperienze virtuose possano essere trasferite nel contesto italiano.

Alcuni esempi esistono anche in Europa, come in Francia dove secondo alcuni osservatori la crisi dovuta alla digitalizzazione dell’informazione si è manifestata una decina di anni prima che in Italia ma con le stesse catastrofiche conseguenze di chiusure e drastici tagli nei media.

Ma alcuni giornalisti che sono stati licenziati hanno deciso di reinvestire le proprie liquidazioni nella creazione di nuove testate online, che si autofinanziano attraverso gli abbonamenti e riescono a dare lavoro a diversi colleghi che hanno subito la stessa sorte.

È il caso del sito Bruxelles2 specializzato in materia di difesa, fondato da Nicola Gros a Bruxelles, dove era stato per diversi anni corrispondente del quotidiano Ouest-France: «La ricetta è quella di rimanere sempre molto vicino ai propri lettori – ci spiega – io ho cominciato perché tenevo un blog sui temi che mi interessavano di più e avendo un po’ di capitale ho studiato per due anni il modello di business che mi avrebbe permesso di sopravvivere e oggi dopo aver assunto due colleghi sto per assumerne altri due».

«Non siamo un sito di nicchia, semplicemente abbiamo un rapporto diretto e costante con i nostri lettori e molto naturalmente siamo passati dalle questioni che riguardano la difesa anche agli esteri, alla diplomazia ed ora scriviamo anche di terrorismo oltre a qualche raro articolo più generico – prosegue Gros che sostiene di non aver bisogno di nessun finanziamento nè dal Governo né da sponsor – perché accettare dei soldi ci allontanerebbe inevitabilmente da quello che vogliono leggere i nostri lettori e a fronte di 50.000€ all’anno che potrebbe darmi il ministero, dopo aver faticosamente riempito decine di formulari, faccio prima a cercare una decina di nuovi abbonati all’anno e ottenere lo stesso risultato economico».

Ma il modello economico di Brussels2.eu è quello di una associazione, in cui la società ha l’obbligo di reinvestire i propri profitti nell’attività, «e questo è quello che io voglio fare -conclude Gros -perché penso che il giornalismo non debba servire a fare profitti ma debba solo permettere di pagare quelli che lo fanno».

Forse sulla stessa onda della gratuità della rete, anche il tema della gratuità dell’informazione ritorna in diverse testimonianze che abbiamo raccolto come in quella di Paolo Levi, giornalista dell’ANSA a Parigi che commenta «a me  piace anche l’idea di detassare gli investimenti nell’editoria e nel giornalismo, tanto più che il giornalismo non dovrebbe aver fini di lucro»  ma ci ricorda che «in Francia ci sono molti meno vincoli contrattuali mentre da noi in Italia il problema è molto più grave e servirebbe un patto generazionale per rendere più equa anche eticamente la nostra  professione».

 

«Il mondo del giornalismo in Italia oggi è diviso in due tra i giornalisti assunti nell’epoca gloriosa della crescita economica e noi che siamo arrivati dopo e costituiamo un esercito di quasi fantasmi ma che in una realtà come l’ANSA stiamo però raggiungendo quasi il 50% degli effettivi» prosegue il non più giovanissimo Levi, ma mai assunto anche dopo diversi anni di esperienza in diversi paesi e tifoso di una nuova crescita economica se questa potrà portare un contratto stabile ai tanti precari.

In effetti la situazione dell’ANSA è ancora più paradossale se si pensa che la proprietà dell’agenzia appartiene a diverse testate giornalistiche. Ma il fenomeno del precariato, malgrado sia un elemento cruciale di questa crisi, resta praticamente ignorato anche per mancanza di dati certi, visto che gli ultimi studi reperibili in rete sulla situazione dei giornalisti precari risale al 2017.

Un altro elemento critico relativo alle agenzie viene sottolineato da Lorenzo Consoli, corrispondente di ASCA News ed ex presidente dell’API, l’associazione della stampa internazionale accreditata a Bruxelles: «Nel momento della crisi gli editori delle agenzie in Italia non si sono messi insieme per affrontare questo fenomeno ma soprattutto non hanno cambiato i contratti con i giornali abbonati per cui oggi, che tutti i giornali sono anche online, le agenzie si fanno di fatto fare concorrenza dai propri stessi clienti che hanno però molta più pubblicità».

«La crisi riguarda anche il potere d’acquisto dei giornalisti che non è aumentato negli ultimi trent’anni» prosegue Consoli che dal suo osservatorio europeo ci riferisce che i giornalisti che se la passano meglio sono quelli inglesi perché oltre ad una forte tradizione hanno anche un vantaggio linguistico notevole e le loro testate possono godere di un pubblico molto più ampio.

«Il precariato è in effetti il problema principale» ci dice Raffaele Fiengo, storico giornalista del Corriere e docente di linguaggio giornalistico all’Università di Padova «ma purtroppo oggi anche le testate dei grandi editori non si basano sui giornalisti». «Oggi invece è importante allargare la presenza giornalistica responsabile dentro la rete» prosegue Fiengo secondo cui negli Stati Uniti ci sono state alcune esperienze ma labili mentre «l’esperienza delle fondazioni è molto lontana dalla situazione italiana».

«Negli anni 70/80 anche in Italia era nata l’idea dello statuto speciale dell’impresa giornalistica che purtroppo è rimasta lettera morta» ricorda Fiengo secondo cui sono state create anche alcune fondazioni che affiancano le proprietà editoriali, come nel caso del Corriere che però di fatto hanno un ruolo marginale.

 

Secondo Fiengo in altri paesi e soprattutto in Inghilterra la ricerca di nuovi modelli economici ha comunque tenuto al centro delle proprie preoccupazioni l’indipendenza editoriale come nel caso dell’Economist dove «quando sono arrivati nuovi finanziamenti esterni è stato creato un meccanismo dialettico tra proprietà e redazione, con regole severe in particolare riguardo all’indipendenza della linea editoriale e alla scelta dei direttori».

Altri esempi di altri tipi di “Fondazioni” esistono in varie parti d’Europa come ci spiega Christophe Leclercq, co fondatore di Euractiv,  (), sito di informazione generalista basato a Bruxelles e che dal 1999 ad oggi è diventato pan europeo ed è disponibile in 12 lingue: «Sono diversi i quotidiani importanti come Der Spiegel, il Frankfurter Allgemeine Zeitung o Le Monde diplomatique, che hanno costituito degli organismi che affiancano le proprietà con compiti ad esempio come quello della formazione dei giornalisti».

Ma la crisi del giornalismo secondo Leclercq non è legata solo alla proprietà dei media, a condizione che i media possano rimanere editorialmente indipendenti, ma piuttosto ai modelli di business che vengono adottati nel momento in cui i media tradizionali hanno perso grande parte del mercato della pubblicità.

«Nel momento della grande crisi per esempio il quotidiano Liberation è stato comprato da un oligarca il quale, redendosi conto delle ingenti perdite ha trasferito la proprietà ad una società no profit, mentre altre testate come Le Monde hanno adottato formule di proprietà mista tra i capitali esterni, i giornalisti e un azionariato di lettori». «Lo stesso Euractiv che ho contribuito a creare ha una fondazione di cui mi occupo personalmente – prosegue Leclercq – ma non abbiamo nessuna vocazione a sostituire la proprietà».

«Queste azioni dal basso costituiscono un stimolo interessante – ci dice Dino Pesole, editorialista del Sole24ore – ma non credo che possano essere risolutive e temo che alla fine servano a poco perché il problema che abbiamo di fronte è di natura più strutturale che richiede interventi altrettanto strutturali».

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«Oggi nessuno è immune da questi venti di tagli selvaggi soprattutto sulla componente giornalistica e i giornalisti hanno perso peso specifico non solo sulla capacità contrattuale ma sulla capacità di incidere sulle decisioni che li riguardano e questo sta determinando un collasso dell’intero sistema».

In questa situazione non si possono proporre antiche ricette, prosegue Pesole, secondo cui il giornalismo di qualità ha una funzione decisiva. «Bisognerebbe arrivare ad una assunzione di responsabilità dalle due parti, da un lato con gli investimenti e dall’altro con la formazione».

Gli fa eco il vice direttore della Stampa, Marco Zatterin, secondo cui in questo momento «la domanda di informazione è importante e l’offerta è abbondante ma solo chi sarà capace di fornire un prodotto editoriale di qualità e di indipendenza garantita potrà farcela».

«Solo la qualità ci potrà salvare ma ci servono investitori coraggiosi e giornalisti talentuosi – dice Zatterin che ammonisce – la rivoluzione digitale non può diventare un alibi perché a fronte di questa grande evoluzione alcuni non avevano capito che non stava cambiando solo la tecnologia ma anche i lettori».

Secondo Zatterin il mercato porta verso degli accorpamenti e plaude al progetto del gruppo GEDI che «ha un progetto di innovazione a medio termine basato sulla creazione di una piattaforma comune a testate che rimangono indipendenti».

Una cosa è certa, il giornalismo così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi è nato con l’avvento della carta stampata e si è strutturato intorno al proprio mezzo di trasmissione adattandosi non senza qualche difficoltà all’avvento della televisione. Ma internet ha provocato una vera e propria rivoluzione copernicana in questo settore e la formula per adattarsi a questo nuovo mezzo si sta ancora cercando. Nel frattempo si può sempre continuare allegramente a dire che è tutta colpa dei giornalisti, fino a che ce ne saranno ancora.