L’Unione Europea è da tempo all’avanguardia a livello globale nella battaglia contro i cambiamenti climatici e sta mantenendo ferme le proprie ambizioni in questo senso, lanciando il Green New Deal, con l’obiettivo di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 e raggiungere l’impatto 0 entro il 2050.

Quindi, secondo le previsioni della Commissione europea, i combustibili fossili continueranno a fornire circa la metà dell’energia all’U.E. almeno fino al 2030.

La geopolitica europea verrà ridisegnata dal new deal verde, con ripercussioni sugli equilibri economici mondiali. Oggi importiamo circa 350 miliardi di euro di “energia”: ad esempio oltre il 60% di quello che importiamo dalla Russia è gas o petrolio. Noi dipendiamo da loro, ma loro dipendono da noi. Nell’ottica del nostro futuro affrancamento anche la Russia guarda sempre di più verso la Cina come mercato di sbocco. Già oggi assorbe oltre il 25% de petrolio esportato dalla Russia.

Si è discusso a lungo del nuovo gasdotto “North Stream”, che dalla Russia porta in Europa, ma dobbiamo ricordare il gasdotto “Power of Siberia”, che è stato attivato nel 2019 e che entro il 2024 dovrebbe portare il 15% del metano russo verso la Cina. Dobbiamo riflettere sulle conseguenze geopolitiche di questi riposizionamenti. Nel Mediterraneo l’Algeria, ad esempio, dipende per il 95% delle sue entrate dall’esportazione di idrocarburi che coprono il 60% del bilancio nazionale.

Se la transizione energetica prima o poi ridurrà al minimo la nostra dipendenza dai paesi tradizionalmente esportatori di idrocarburi parallelamente salirà l’esposizione verso i paesi ricchi di minerali e metalli necessari per la produzione di batterie al litio, celle a combustibile, pannelli solari e turbine eoliche. Si tratta di chi estrae le cosiddette “terre rare” di cui, ancora una volta, la Cina ha fatto incetta in giro per il mondo.

L’ Unione Europea pesa però solo per l’8% delle emissioni globali di gas serra. Deve quindi soprattutto mettere il proprio peso diplomatico e economico al servizio della causa ambientale: se permette che la domanda energetica in Africa ed in Asia sia soddisfatta da nuovi impianti a carbone e gas, magari forniti dalla Cina, non riuscirà mai nell’obiettivo di ridurre le emissioni a livello globale.

La direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva, ha avocato un “momento Bretton Woods” per indicare il ridisegno di un nuovo modello di sviluppo e delle relazioni finanziarie a livello globale, sull’esempio di quello realizzato nel 1944, fondato anche su uno schema di risoluzione degli enormi debiti pubblici presenti nel mondo.

Oltre che per il clima e le disuguaglianze, è necessaria una ristrutturazione dei debiti a livello globale: la richiesta è stata formalizzata al G20. In assenza di questo schema rischiamo di entrare in una trappola di debiti e stagnazione.

Dove trovare tutti i soldi necessari? Prima di tutto risparmiare ove si può.

Ci sono studi che hanno calcolato quanti soldi vengono sprecati per il semplice fatto di svolgere a livello nazionale politiche che sarebbe meglio attribuire a livello europeo.

Pensiamo alla sanità, con i programmi di prevenzione o l’acquisto di materiali sanitari: abbiamo sotto gli occhi l’esempio virtuoso del vaccino anti covid gestito a livello europeo.

Pensiamo alle politiche sociali, con un sistema europeo di interventi contro la disoccupazione, simile al sistema federale presente negli Usa.

Pensiamo soprattutto alla difesa. Per ogni progetto di attrezzature e materiali militari nazionali rinunciamo a grandi risparmi su interventi comuni su scala europea. Si tratta di almeno 30 miliardi di euro di vantaggio collettivo.

In secondo luogo è necessario emettere debito comune. Leggiamo ogni mese che viene aggiornato il record, a livello mondiale, dei miliardi di dollari e di euro parcheggiati sui conti correnti con un rendimento negativo. Cifre enormi che sarebbero utili per eliminare la fame e fronteggiare i cambiamenti climatici. Le due esigenze possono finalmente coincidere: il mercato ha fame di rendimenti relativamente sicuri e il mondo ha bisogno di denaro.

L’Unione europea ha il più grande istituto multilaterale di prestiti del mondo, la BEI, Banca Europea degli investimenti. Gli stati hanno concordato di trasformare la BEI in banca UE per il clima con l’intenzione di mobilitare fino a 1000 miliardi di euro in investimenti per la sostenibilità ambientale. La BEI, in quanto istituzione all’avanguardia nelle obbligazioni verdi, ha un ruolo importante da giocare nell’indirizzare anche gli investimenti privati verso progetti sostenibili.

La Conferenza ONU sul cambiamento climatico COP26, che si è conclusa in questi giorni a Glasgow, ha dato risultati in gran parte deludenti: manca una data precisa per l’uscita dal carbone e le somme stanziate non sono chiare. Era difficile ottenere risultati più consistenti visto che erano assenti due leader di Paesi chiave come Russia e Cina.

È evidente a tutti che la tutela ambientale è una sfida che va oltre il potere dei singoli stati, sia dal punto di vista delle risorse economiche che sono necessarie per la riconversione energetica, ma anche per la necessità di far nascere dei tavoli diplomatici con le grandi potenze globali e i paesi emergenti, che ovviamente hanno tutto il diritto ad uno sviluppo economico e tecnologico che li porti nel tempo alla pari con i paesi occidentali. Questo sviluppo non può però seguire lo stesso percorso e deve tenere conto dell’ambiente come valore di riferimento.

Per far ciò l’Europa deve essere in grado di parlare con una voce unica in politica estera e che non sia subalterna alle divisioni dei singoli stati nazionali.

Non è più rimandabile, affinché la politica estera sia in grado di affrontare queste sfide, l’idea di dotare le istituzioni europee di una sovranità su queste materie. Dove per sovranità si intende la legittimità democratica e il potere di assumere iniziative politiche e di portarle a compimento nel modo più efficace possibile.

La Conferenza sul futuro dell’Europa, che si sta tenendo in questi mesi e dove i cittadini hanno la possibilità di far sentire la propria voce, è sicuramente l’occasione per avviare un processo di riforma delle istituzioni europee per dotarle delle forme coerenti ad affrontare le sfide del nostro tempo.