Non hanno litigato del tutto ed alla fine qualche speranza sul futuro del pianeta ce l’hanno lasciata. I Paesi della Cop26 di Glasgow si sono presentati al mondo come paladini della lotta ai cambiamenti climatici. Ma al tempo stesso interessati a far progredire le proprie comunità. Le discussioni e i documenti finali- in pratica una riscrittura degli accordi della Conferenza sul clima di Parigi – sono stati lo specchio di un percorso lungo e tortuoso per non soccombere. Dico subito che hanno ascoltato poco i giovani. “Non sono soddisfattissimo, ha detto il Ministro italiano della transizione ecologica Roberto Cingolani- però, il compromesso è parte del mestiere”. India e Cina non abbandoneranno il carbone mentre per il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres il “pianeta resta appeso a un filo”. I decenni indicati dalla Conferenza per contenere l’aumento della temperatura terrestre hanno rivelato le strategie che i singoli governi intendono perseguire per non restare fuori dal “club degli ecologisti”. Ciascuno a suo modo si è impegnato a coniugare crescita e tutela ambientale. Tema spinoso, in verità, già prima dell’appuntamento di Glasgow. Un grande Paese come gli Usa ha dimostrato, infatti, la temporanea validità (diciamo pure la precarietà) degli impegni che si prendono al cospetto del mondo. E’ bastato che Donald Trump nel 2016 vincesse le elezioni americane per vedere stracciati gli accordi di Parigi di un anno prima. E poi sostenere con “America First” che le energie rinnovabili, il clima, la decarbonizzazione, la biodiversità, fossero assurdità. Tematiche gradite a Greta Thunberg, al predecessore Barak Obama, ma contrarie allo sviluppo e al benessere delle persone , secondo  Mr. Donald. Joe Biden, una volta eletto, ha ripreso il cammino interrotto e a fare investimenti green. Non sarà facile nemmeno per lui e da qui al 2030 la Casa Bianca cambierà ancora inquilini. Tuttavia, come tenere insieme sviluppo e cura del pianeta è la domanda cruciale, attualissima, rimasta ,purtroppo, marginale alla Cop26.

Afghanistan, Joe Biden

I Paesi in via di sviluppo rivendicano il diritto a crescere secondo schemi consolidati nelle economie occidentali. Queste ultime segnano evidenti diversità di vedute e di valutazione sullo stato di salute del pianeta. Non riescono a diventare un unicum, un contrappeso, alla domanda di crescita dei Paesi emergenti che chiedono fonti energetiche primarie, ancorché inquinanti. C’è chi li asseconda investendo capitali su estrazioni, nuove centrali, grandi pipeline. Anche l’Europa ha le sue zavorre energetiche quando si vede attraversata da nuovi potenti gasdotti che accompagneranno la transizione verde o sente Macron annunciare nuove centrali nucleari. La Conferenza si è chiusa con impegni, ma senza  risultati che tarderanno ad arrivare. Si, le speranze ci sono, ma in gioco ci sono anche molti miliardi di dollari utili ad uscire dai proclami e rendere le cose fattibili. Dovremmo vederli spesi in progetti esecutivi e cantieri. Cosi’ la finanza internazionale solo ora- e timidamente- inizia a vedere buone occasioni di investimenti nello sviluppo sostenibile. Ne abbiamo scritto diffusamente, ma non è ancora chiaro l’aiuto che puo’ venire dalle grandi istituzioni finanziarie per conciliare crescita e tutela ambientale. E l’ambientalismo dentro gabbie ideologiche non serve a nessuno. L’Italia da questo punto di vista fa scuola con casi industriali emblematici, dove non si riesce a legare posti di lavoro, affari, ambiente e salute pubblica.

L’EEA (Agenzia Europea per l’Ambiente) nel suo rapporto Growth without economic growth, scrive che “la crescita economica è strettamente collegata all’aumento della produzione, del consumo e dell’utilizzo delle risorse, che ha effetti negativi sulla natura, il clima e la salute umana”. Lo ha ricordato anche il climatologo Luca Mercalli secondo cui “non saranno certo le parole e la diplomazia a salvarci “ dal declino del pianeta. Se è giusto non creare nemmeno allarmismi nel mondo, penso che la sfida globale non riguardi solo il clima, ma la ridefinizione di modelli di vita e di convivenza. Modi di vivere alle prese con disastri naturali, epidemie, migrazioni climatiche,  istruzione, leadership, infine con la democrazia. A Glasgow è stato commesso il grande errore di lasciare i giovani- di Fridays for Future e delle altre organizzazioni – fuori dalla Conferenza. Era, invece, necessario dare loro la parola, aprire le sale, farli sedere accanto a leader e negoziatori per allargare la platea di coloro che marciano in una sola, chiara, direzione. Sarebbe stata una grande lezione di democrazia partecipata. Per rendere più forti le speranze di tutti. E quella dei giovani sarà prevalente.