Devo dire che leggo quasi sempre gli editoriali di Donato Speroni per ASVIS, perché li trovo interessanti e stimolanti. Quello che ha recentemente scritto sulla crisi delle democrazie occidentali tocca certamente tutti i temi più rilevanti, ma, a mio avviso, non si discosta sufficientemente da una visione novecentesca della geopolitica.

Adolf Hitler – Foto di Bundesarchiv

L’esempio più chiaro si trova proprio all’inizio, quando l’atteggiamento di Xi Jinping verso Taiwan e quello di Putin verso l’Ucraina vengono paragonati all’aggressione della Polonia da parte di Hitler.

È vero che le grandi democrazie, il mondo libero, sono a volte chiamati a difendere con le armi i loro valori, i loro diritti e la libertà delle loro società, ma il parallelo non sta in piedi. Hitler viveva in un mondo dove, anche in Europa, i conflitti tra gli Stati si risolvevano ancora attraverso la guerra. Oggi i popoli del mondo sono irreversibilmente interconnessi in un sistema economico globale che rende tutti importanti, pochissimi trascurabili, e dove il potere cammina sui click delle tastiere della finanza internazionale, che anche i governi più tirannici non riescono a controllare. Il potere è diventato essenzialmente economico: la salita del prezzo delle materie prime, o la scarsità delle componenti elettroniche penalizzano le comunità umane in modo diverso dalle guerre – certamente – perché non si contano milioni di morti. Ma queste cose possono profondamente cambiare gli equilibri internazionali del potere senza sparare un colpo di fucile.

Siccome sono stato uno fra i pochi italiani ad aver lavorato nella Corea del Nord, quando il tirannello della terza generazione, Kim Joung-Un, ha cominciato a sparare qualche razzo nel Mar del Giappone, qualcuno mi ha chiesto cosa ne pensavo.

Ho spiegato che il problema del dittatore coreano non era difendere il suo paese o praticare una politica di espansione, ma distrarre il suo popolo dalla fame. Spessissimo nella storia i tiranni si sono inventati qualche “azione forte”, agitando la spada, solo per far fronte a problemi interni, o per rafforzare la propria immagine.

Xi Jinping è a capo di quella che sarà tra breve la più grande economia del mondo, che controlla il mercato mondiale di moltissimi prodotti, che è praticamente padrona di una grande parte dell’Africa, che ha investimenti giganteschi in Europa e controlla il debito estero americano.

Xi Jinping – Foto di Palácio do Planalto

Gli converrebbe organizzare una specie di sbarco in Normandia, con tutte le conseguenze sulla sua posizione a livello internazionale, per conquistare una isoletta che produce componenti elettronici dei quali la Cina ha già il controllo? E Putin vorrebbe davvero invadere l’Ucraina, infilandosi in un Vietnam che sarebbe peggiore di quello Afgano, visto che gli Ucraini detestano i russi da secoli?

Naturalmente tutto è possibile: i dittatori possono impazzire. Sto scrivendo questo breve articolo il giorno 7 dicembre, e quindi potrei essere smentito, ma la mia impressione è che la geopolitica sia rimasta indietro, soprattutto nel nostro paese, e che Xi Jinping e Putin stiano solo attuando un antichissimo metodo di negoziato, come il cliente del commerciante di tappeti nel suk che esce dal negozio dicendo di non accettare il prezzo, per farsi inseguire dal venditore.

Se si vuole realizzare quanto il nostro paese sia rimasto indietro, nell’approccio alla geopolitica internazionale, consiglio vivamente di leggere il libro di Christopher Coker, Lo scontro degli stati-civiltà (2020). Il saggio non è soltanto un capolavoro, ma mostra una visione culturale-ideologica del confronto tra le grandi potenze nel mondo attuale. Fra l’altro l’autore non si limita a riferirsi a saggi e trattati, ma cita regolarmente romanzi, cinema e opere d’arte (è anche significativo che fra le decine di autori citati ce ne sia soltanto uno italiano!).

Non sono certo in grado di riassumere in poche righe un lavoro così ampio e fondamentale. Mi sembra utile però far notare come esso metta in luce un elemento essenziale ed illuminante: i nuovi grandi dittatori, così come del resto quelli che propugnano il ritorno al califfato islamico, stanno proponendo un confronto tra culture e civiltà, utilizzando cioè costruzioni di tipo identitario e culturale che superano gli stati nazionali westfalliani. In sostanza questo studio mostra che la cultura politica occidentale basata sulla democrazia e sui diritti, non è più il modello universale cui tutti i popoli sarebbero dovuti giungere dopo la caduta del muro di Berlino.

Vladimir Putin – Foto di Kremlin.ru

La fine della storia, ipotizzata nel libro di Francis Fukuyama, non è avvenuta, perché il modello occidente non solo non ha trionfato – come mostrano i fallimenti americani nell’esportazione della democrazia –, ma molti popoli lo rifiutano, considerandolo soltanto una fra le identità e le culture dei popoli del mondo.

Donato Speroni lo fa notare, ma senza sottolinearlo sufficientemente. Le culture e le democrazie occidentali hanno perso il loro appeal, il loro slancio propulsivo, non tanto perché non hanno più armi ed eserciti, ma perché mostrano di non crederci più.

Le comunità erigono muri e barriere, – come molte oggi hanno fatto o vogliono fare – perché sono deboli, e sono deboli perché hanno messo in discussione sistemi e valori, come del resto sempre accade nei momenti di decadenza. Ne sono prova le posizioni dei populisti dell’occidente, quasi tutti d’accordo nella difesa di antiche identità – che non ci sono più -, e nella costante critica al cosmopolitismo e a molti dei valori fondanti della cultura occidentale come la libertà di espressione e l’indipendenza del potere giudiziario.

Non siamo in grado di esportare democrazia e diritti perché siamo noi stessi a metterli in discussione.

Non so se dovremo di nuovo difendere con le armi gli acquis della rivoluzione francese e della costituzione americana, ma è certo che prima di confrontarci con gli altri, dovremo condurre una lunga battaglia per tornare a riconoscerci in quell’illuminismo che ha cambiato il volto dell’Occidente.