Con l’acuirsi della crisi ucraina le testate giornalistiche, sia nostrane che estere, hanno resuscitato il mito della “Guerra Fredda”.  Ecco dunque calata nuovamente la “Cortina di ferro” che torna a sancire il limes tra due europee, una occidentale legata a Washington e una euroasiatica legata a Mosca. Siamo dunque in uno scenario da “back to the future”, dove le logiche del confronto tra blocchi che credevamo estinte con la caduta del muro di Berlino si ripropongono ai giorni nostri? Siamo di fronte ad una nuova “Crisi dei missili” come quella di cuba del 1962?

Un ritorno alla guerra fredda è sicuramente un mito da sfatare, una ipersemplificazione mediatica che rischia di distorce la capacità di analisi del grande pubblico.

Innanzitutto, va chiarato come la “Guerra Fredda” fu un unicum irripetibile nel panorama storico delle relazioni internazionali. Il termine fu coniato dal giornalista Walter Lippmann per descrivere l’acuirsi delle tensioni tra gli Stati Uniti d’America e L’Unione Sovietica a circa un anno dalla fine del secondo conflitto mondiale. Lo storico S. Jeannesson descrisse questo periodo come “un confitto ideologico che si carica di una conflittualità geopolitica tra due Stati diventati superpotenze”. L’America erede dell’internazionalismo wilsoniano basata sulla proiezione dei valori liberal-democratici si poneva in contrasto a un impero sovietico sorto dal comunismo Leninista. Negli anni successivi alla rivoluzione del 1917 e alla fine della guerra civile, in Russia si era infatti configurata “una duratura equazione tra il nuovo esperimento comunista e la tradizione geopolitica imperiale zarista”, un nuovo centro di potere mondiale dotato di un “canale d’influenza ideologica capace di penetrare all’interno delle società straniere”, come egregiamente descritto da G. Formigoni e A. Ulam.

La situazione è cambiata drasticamente da quei tempi a seguito della disintegrazione di uno dei due protagonisti. Con la frammentazione dell’URSS si è persa la carica ideologica che permeava l’intera struttura internazionale, dettando ogni mossa e contromossa delle pedine dello scacchiere geopolitico. Si pensi come l’inserimento statunitense nella guerra del Vietnam fu sorretto dalla “Teoria del domino” elaborata Presidente Eisenhower e dal Suo Segretario di Stato J.F. Dulles nel 1954, in quanto temevano che la caduta di Saigon avrebbe causato il dilagare del comunismo in tutto il continente asiatico. La situazione ora illustrata non è riproponibile oggi poiché, seppure la Federazione Russa cerchi di farsi garante di una visione del mondo dominata dalla preminenza indiscussa della sovranità statale su tuti gli altri aspetti valoriali, non riscontra più il magnetismo esercitato dalla Mosca quale faro del comunismo internazionale attraverso il Cominform.

Con la fine dell’URSS si è passati inoltre dalla fase del bipolarismo delle superpotenze all’ era dell’unilateralismo statunitense, dove Washington diventava una “Lonely Power”, l’unico vero centro della potenza globale. Oggi viviamo un nuovo periodo di diffusione del multipolarismo nel quale Mosca, seguendo la dottrina del ex Primo Ministro Evgenij Primakov, sembra essere in grado di ritrovare un suo ruolo anche a costo di far leva su iniziative marcatamente assertive. In questo contesto la Russia ha approfitto della reticenza occidentale in vare crisi, riuscendo ad acquistare margini di manovra in teatri importati quali Libia, Siria, Afghanistan e Venezuela. Come ai tempi di Brežnev, Mosca sembra anche disposta ad intervenire militarmente per influenzare la sovranità dei vicini qualora le loro azioni siano percepite come lesive dei suoi interessi cruciali. Ucraina e Georgia ben lo dimostrano. Eppure, gli Stati Uniti continuano a detenere un primato in termini di dotazioni economico-militari, creando una situazione di asimmetria di potenza con i possibili competitors quali Cina e Russia.

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Si noti inoltre che diversi analisti guidati da Kenneth Waltz attribuirono alla Guerra Fredda un certo carattere di stabilità e prevedibilità. Nonostante il rischio di uno scontro tra i due blocchi a causa di errori di percezione fosse possibile, come si rischiò durante l’esercitazione NATO Able Archer nel 1983, con il tempo si cristallizzarono meccanismi di gestione delle crisi che evitarono il sorgere di conflitti aperti tra le supponenze nucleari. Se oggi la possibilità d’impiego delle testate atomiche si è sensibilmente ridotta, sembra però che il Cremlino e la Casa Bianca facciano fatica ad intendersi producendo un clima di diffusa instabilità.

Infine, va ricordato che il fulcro della competizione internazionale si è spostato. Se durante la Guerra Fredda l’Europa e la Germania in particolare erano il principale campo d’azione delle superpotenze, oggi l’attenzione di Washinton si volge ad oriente verso Pechino, percepita come possibile sfida alla quasi-egemonia americana nel pacifico.

Certo, alcune dinamiche già presenti cinquant’anni fa sono riscontrabili anche ai giorni nostri. Gli Stati Uniti continuano ad attuare una specie di “containment” verso la Cina e la Russi, ora incentrato sui bastioni di Taiwan e Kiev, così come Mosca continua a nutrire una “concezione assolutistica” nonché “dogmatica” della sua sicurezza proprio come la aveva descritta G. Kennan nel Lungo Telegramma del 1947. Tuttavia, nonostante queste similitudini, possiamo star certi che “la storia rima ma non si ripete”, e questo vale anche per la Guerra fredda.

Letture consigliate:

  • Storia delle relazioni internazionali, di Ennio Di Nolfo, 2002
  • Storia della politica internazionale nell’età contemporanea, di Guido Formigoni, 2000
  • Storia della politica estera sovietica, A.B. Ulam, 1970
  • La Guerra Fredda Una Breve Storia, Stanislas Jeannesson, 2007
  • Storia della Guerra fredda, d Federico Romero, 2002