E già sono passati sei mesi di guerra. Viviamo con la paura delle notizie che arrivano dalla centrale nucleare di Zaporizhzhia ormai da settimane, situata in territorio ucraino ma sotto il controllo dei russi.  La visita degli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che ha lasciato sul posto due tecnici per monitorare la situazione, ha confermato che ci sarebbe stata una violazione di alcune norme di funzionamento e di manutenzione della stessa. Inoltre arrivano notizie di bombardamenti finalizzati a colpire la centrale da parte dell’esercito ucraino. Dall’inizio di settembre il nuovo Primo Ministro inglese è la conservatrice Liz Truss che, per affermare il proprio comando, ha detto di essere “pronta” a premere il pulsante nucleare anche se questo significherebbe l’annichilimento globale. Un bel quadro vero?

Allora tornano alla memoria ricordi di quasi 50 anni fa, di una canzone simbolo del pericolo nucleare, in un momento in cui il mondo era sommerso da altre guerre, tra cui il Vietnam, con la memoria in più del 1945 e del Giappone. Il brano purtroppo è ancora attuale e la storia, ancora una volta, non ci ha insegnato niente.

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Nel 1971, quel grande poeta e cantautore che è Francesco Guccini, nato a Modena nel 1940, compone una canzone “Il vecchio e il bambino”, che diventerà un manifesto degli effetti di una esplosione atomica e del post atomico. Il testo della canzone, pochissimi anni dopo, verrà inserito e pubblicato in alcuni libri di scuola. Probabilmente la prima volta che la canta, e che viene registrato, lo fa sulla Piazza degli Scacchi a Marostica (VI), quell’immagine di lui solo con la chitarra in una piazza deserta, il pavimento formato da scacchi bianchi e neri, fa pensare a noi, agli esseri umani che bianchi e neri sono piatti, soli, nudi di fronte a un rischio di tale genere. Il testo rappresenta una fiaba drammatica e al tempo stesso di un sogno a occhi aperti, con due figure: un vecchio e un bambino che rappresentano, ognuno con la sua intimità, il cammino stesso dell’uomo. Un cammino che per il vecchio è incerto, fragile, nostalgico e doloroso, mentre per il bambino, nella sua inesperienza e ignoranza del passato, quasi più una passeggiata serena col nonno.

Un vecchio e un bambino si preser per mano
E andarono insieme incontro alla sera
La polvere rossa si alzava lontano
E il sole brillava di luce non vera.

L’ immensa pianura sembrava arrivare
Fin dove l’occhio di un uomo poteva guardare
E tutto d’ intorno non c’era nessuno
Solo il tetro contorno di torri di fumo

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Il vecchio piange perché vede il presente e lo paragona con il passato, ricorda che il paesaggio che lui conosceva era completamente diverso da quello nel quale si trovano e prova a spiegare al bambino. Nel viaggio, tenendosi per mano, il vecchio si apre ed esprime tutti i suoi ricordi, il vissuto, finalmente libero di raccontare le memorie del mondo passato, ma con un pensiero, ancora ferito, per quello che quel mondo riserverà alle generazioni future.

 

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L’anziano racconta al bimbo com’era il mondo prima dell’esplosione nucleare e il bambino, nella sua illusione, crede che sia tutto un racconto, magari inventato dal vecchio:

I due camminavano, il giorno cadeva
Il vecchio parlava e piano piangeva
Con l’anima assente, con gli occhi bagnati
Seguiva il ricordo di miti passati

I vecchi subiscon le ingiurie degli anni
Non sanno distinguere il vero dai sogni
I vecchi non sanno, nel loro pensiero
Distinguer nei sogni il falso dal vero

Guccini, poeticamente e in modo delicato, mostra un quadro di una desolazione post nucleare, un disastro ambientale, nel quale camminano il vecchio che ricorda e il bambino si guarda intorno, sicuramente senza capire e non avendo conoscenza per poter avere un paragone.

Attraverso la polvere rossa, colonne di fumo e una luce non vera del sole, il vecchio narra, quasi una favola per il bimbo, di come fosse bella prima quella distesa coperta di grano, con alberi e fiori, suoni, colori e voci. Per il bambino non c’è corrispondenza con quanto vede e la narrazione del nonno, ma segue con la mente il suo racconto.

E il vecchio diceva, guardando lontano:
“Immagina questo coperto di grano
Immagina i frutti e immagina i fiori
E pensa alle voci e pensa ai colori

E in questa pianura, fin dove si perde
Crescevano gli alberi e tutto era verde
Cadeva la pioggia, segnavano i soli
Il ritmo dell’ uomo e delle stagioni”

L’autore, che aveva scritto già altre canzoni su questo dramma, ricordiamo “Atomica cinese” e “Noi non ci saremo”, rappresenta la devastazione nucleare come i danni dell’uomo sul pianeta, quasi piangendo per la mancanza di rispetto verso la natura, verso i suoi figli e verso la nostra stessa vita.

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Il vecchio gli racconta del sole e delle stagioni, i frutti pendenti e il verde intorno, di contro il bambino, non avendo mai visto le belle cose raccontate dall’anziano e non avendo la possibilità di immaginare una esistenza diversa da quanto vede, nella sua ingenuità di bimbo, pensa a una fiaba e, puro e sincero come solo i bimbi possono essere, esclama che le favole son belle e allora raccontamene un’altra……

Il bimbo ristette, lo sguardo era triste
E gli occhi guardavano cose mai viste
E poi disse al vecchio con voce sognante:
“Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!”

 

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