24 febbraio. L’inizio

Prof. Volodymyr Medved- Foto dell’autore

Sono un medico anziano, professore, direttore della clinica dove vengono assistite le donne in gravidanza fino al parto, anche quelle con malattie molto diverse e, per lo più gravi. Senza la nostra clinica, molte di loro non potrebbero diventare madri. Vivo una confortevole routine di vita: vado a letto presto, la mattina mi alzo all’alba e vado in clinica, quando in città quasi non c’è traffico, prima che si creino i consueti ingorghi. Il 24 febbraio tutto è diventato diverso. Mi sono svegliato alle solite cinque del mattino, ma ho sentito subito dei suoni insoliti e innaturali fuori dalla finestra. Qualcosa come un’esplosione. Pensavo che fosse solo un’impressione, ma presto squillò il telefono: una chiamata inaspettata per quell’ora del mattino. Era il mio capo dipartimento. Ha quasi gridato: “Ci stanno bombardando! Avete sentito? I russi sono già in periferia!”

Non ci credevo, non riuscivo a crederci. “Come è possibile – ci stanno bombardando? Come in periferia?”. Kiev è un’enorme metropoli, la capitale di uno Stato sovrano.

Sì, la Crimea è stata annessa nel 2014. Sì, da allora c’è stata una guerra nel Donbass, ma non quella calda, una sorta di “conflitto congelato”, almeno negli ultimi anni. La situazione del paese non era cambiata, le città non venivano bombardate, i civili non erano uccisi. Ci eravamo abituati. Era una sorta di reazione protettiva (subdola ma pur sempre protettiva). Un’autodifesa, perché ciò che non puoi vedere o sentire, sembra non esistere per te. Stavo guidando per andare a lavoro in una città completamente diversa, insolita e quasi sconosciuta per me. Nonostante fosse mattina presto, molte auto cercavano di lasciare la città, si erano formate lunghissime code in tutte le stazioni di servizio. Durante il tragitto, il mio cellulare riceveva continuamente messaggi. I miei collaboratori mi informavano che non sarebbero venuti al lavoro, perché dovevano mettere in salvo i loro bambini, i miei medici erano costretti ad andarsene. Quelli che chiamavano sentivano la mia sorpresa, il mio disappunto: “Cosa vuol dire che non verrete? E i pazienti? Chi dovrebbe visitarli?… Prendiamoci un po’ di tempo, nulla è ancora chiaro, tutto potrebbe ancora risolversi in qualche modo…”.

Ma tutti coloro che mi hanno chiamato e scritto erano in uno stato emotivo tale che le mie parole non riuscivano a raggiungere le loro menti. Fuori dalle loro finestre sentivano le esplosioni e quelli che vivono in periferia potevano sentire anche gli spari. E tutti loro hanno figli.

Equipe del Prof. Medved-Foto dell’autore

Per fortuna però quella mattina c’erano altri due medici con me in clinica. Ci siamo ‘divisi’ i reparti e abbiamo iniziato le visite programmate. La maggior parte delle donne (così chiamiamo le nostre pazienti) chiedeva perentoriamente di essere dimessa. Dicevano: “Qui è troppo pericoloso, da un giorno all’altro i russi potrebbero entrare a Kiev. Partiremo verso la parte occidentale dell’Ucraina o per l’estero…”. Solo i pazienti più gravi non volevano essere dimessi, quelli che sapevano che non avrebbero ricevuto un’assistenza adeguata se non nella nostra clinica. Rimanevano anche le partorienti, perché non avrebbero avuto il tempo di raggiungere i luoghi di destinazione. Oh!!! Se coloro che chiedevano di essere dimessi avessero saputo cosa stava accadendo sulle strade che portavano a ovest!

C’era già un immenso ingorgo di molti chilometri. Le persone in viaggio trascorrevano giorni e notti in auto, a malapena in movimento, ma per lo più bloccate, con bambini, genitori anziani, animali domestici e spesso senza acqua e cibo, nello stesso paese in cui il giorno prima tutto era normale e tutto era al sicuro, dove nessuno conosceva né fame né sete.

Questo l’ho saputo dopo, in quel momento dovevo solamente preparare tutti i documenti per le mie future madri, non perdere nulla, formulare chiaramente tutte le raccomandazioni per il trattamento, i termini, i metodi e le condizioni del parto.

I primi giorni sono stati i più difficili… ogni cosa era diversa. Il nostro stile di vita abituale era crollato. In pochi giorni la città divenne deserta, ma le strade erano coperte da blocchi di cemento armato, fili spinati anticarro, posti di blocco con uomini armati della difesa territoriale. Era difficile guidare, anche se il traffico era quasi inesistente. La maggior parte dei negozi ha chiuso, e quelli rimasti aperti avevano lunghissime file all’esterno. La cosa peggiore è stata la mancanza del pane e del carburante, quasi impossibili da trovare. Non è andata meglio con le medicine: le farmacie erano praticamente chiuse, c’era una grave carenza, anche dei farmaci vitali.

Foto libera da Pixabay

La nostra clinica ha continuato a funzionare, ma le condizioni di lavoro sono radicalmente cambiate. Con i pochi medici rimasti abbiamo formato squadre di servizio e tutto il carico principale è ricaduto su di loro. Tuttavia, oltre all’assistenza urgente, alla fine è stato necessario visitare le donne, prescrivere cure, eseguire misure preparatorie al parto e, alla fine, fare quello che abbiamo sempre fatto, ma con molto meno personale. Da responsabile del reparto mi sono trasformato in medico curante, quello che ero nella mia giovinezza, anche se la mia funzione decisionale non mi era stata tolta. Nel reparto c’erano molti meno pazienti, ma erano tutti molto più gravi. Il lavoro era diventato molto più difficile per la mancanza di medicinali, gli infiniti allarmi aerei, il trasporto dei pazienti al rifugio, il loro ritorno in clinica e il necessario abbassamento del livello della luce. Per non parlare dei bombardamenti e delle distruzioni. Grazie a Dio, i parti sono stati eseguiti correttamente, le donne e i bambini sono stati assistiti, nessuno è andato perso. Però alcuni di loro non avevano un posto dove andare, le loro città o villaggi erano occupati, non potevano tornare a casa e sono rimasti nel reparto per molto tempo.

I russi non entrarono mai in città. Due mesi dopo furono scacciati da Kiev, ma quando i nostri militari entrarono nella periferia di Irpin, Bucha, Gostomel, Borodyanka e altri villaggi, tutti nel mondo poterono capire il volto del vero nazismo del XXI secolo, con il suo corollario di barbarie, saccheggi e sadismo. Siamo rimasti scioccati e inorriditi, ma non ne voglio parlare perché fa troppo male.

Da allora sono passati otto mesi. La maggior parte dei medici è tornata, ci sono anche più donne nella clinica. I negozi sono aperti, il carburante e le medicine sono disponibili, ma la situazione non è migliorata, è solo diventata diversa. Ora la nostra città e i sobborghi vengono attaccati regolarmente, con maggiore intensità il lunedì. È già diventata una tremenda routine. Non ho mai capito perché il lunedì – il primo giorno della settimana – come non riesco capire tante altre cose. Ora però attaccano deliberatamente obiettivi civili, e non fanno più nulla per nasconderlo.

Oggi c’è una guerra contro i civili, contro i bambini, le donne incinte. Non c’è elettricità, né acqua o internet e manca la connessione cellulare per molte ore al giorno. È una realtà cui sembriamo abituati. Così come al problema del riscaldamento negli appartamenti, nelle scuole, negli ospedali. Ma non è affatto così: è impossibile abituarsi al male, ci si abitua rapidamente solo al bene e si smette di notare quanto sia importante. Stiamo cercando di ‘adattarci’ a questa nuova realtà, piena di problemi che non abbiamo mai sperimentato prima nella nostra vecchia vita tranquilla e a volte noiosa. In un ospedale, dove si eseguono interventi chirurgici, dove le donne partoriscono e i bambini nascono, questa mancanza di luce, di calore, di acqua, di connessione è particolarmente incomprensibile e dolorosa!

Volutamente non faccio esempi tragici, cerco di mantenere un tono calmo. Ma semplici domande mi perseguitano e non mi danno pace! È possibile nel nostro tempo distruggere città pacifiche? È possibile nel XXI secolo uccidere bambini? Impadronirsi di territori di Stati indipendenti e dichiararli propri? Anche se si dispone di armi nucleari? A quanto pare sì.

Ma se è così, allora è vero che noi, persone di buona volontà, civilissimi europei, non abbiamo previsto nulla.

Credo che sia arrivato il momento di decidere di nuovo chi siamo e come vogliamo vivere.

Foto di apertura libera da Pixabay

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Dr. Med, professore, Direttore scientifico del reparto di Medicina Interna della Donna in Gravidanza, Istituto di Pediatria, Ostetricia e Ginecologia.Autore di oltre 500 pubblicazioni scientifiche. Durante la guerra rimane tutto il tempo a Kiev, nella sua clinica