Il difficilissimo momento che attraversa tutto il nostro mondo dopo la pandemia, con la guerra in Ucraina e con la sempre più visibile esplosione dei danni causati dal cambiamento climatico, sembra richiedere una riflessione sulla difesa delle minoranze. La loro posizione sociale si indebolisce e i loro diritti si affievoliscono.

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Le tragedie che vivono le comunità umane di molti paesi al di fuori del mondo occidentale, come l’Iran, la Siria, il Libano, il Myanmar e molti paesi africani – sulle quali abbiamo chiuso gli occhi – non sono rimaste confinate a mondi lontani perché l’immigrazione ce le porta sempre di più a casa nostra. Le democrazie liberali dell’Occidente non riescono a contrastare l’allargarsi di una diseguaglianza sociale che rischia di mettere in discussione gli stessi sistemi democratici come mostra l’era Bolsonaro in Brasile o quella di Trump negli USA, che potrebbe non essersi conclusa. Nei grandi momenti di crisi le maggioranze, le componenti sociali dominanti, tendono a difendere se stesse sacrificando gli altri. Nei periodi di vacche grasse si lascia correre, ma quando non ce n’è più per tutti, allora si finisce per sacrificare i più deboli e, di conseguenza, le minoranze aumentano.

Anche nei paesi con una più lunga tradizione di democrazia e rispetto dei diritti, se quelle etniche e razziali sono state tradizionalmente minoranze, il crescente disagio favorisce la discriminazione di altri gruppi, come quelli religiosi, coloro che fanno uso di sostanze stupefacenti, i disabili, coloro che scontano pene nelle carceri e, sempre di più le donne, le componenti giovani della società e la crescente massa dei poveri. Studiosi e politici si riempiono la bocca dei diritti delle minoranze: eppure non solo i dittatori, ma anche i governi populisti che si affacciano sempre più tra le democrazie occidentali, rilanciano strategie identitarie e nazionaliste che tendono a limitare i diritti delle minoranze, insieme con i tradizionali metodi democratici per farli valere.

Certamente tutti i sistemi politici democratici prevedono meccanismi di tutela delle minoranze. Però questi meccanismi possono essere molto indeboliti, e addirittura annullati, in una situazione di contrapposizione e di polarizzazione delle compagini politiche, alla quale stiamo assistendo ora in molti paesi.

In un parlamento o in un altro organo collegiale, una minoranza resta una minoranza, possono quindi essere approvate decisioni anche per essa fortemente lesive. Vediamo che fortissime forme di protesta vengono spesso adottate nei paesi governati da dittature, dove non ci sono garanzie per le minoranze. Però si organizzano proteste anche nelle democrazie, per manifestare rapidamente una reazione a provvedimenti che gruppi minoritari ritengono lesivi delle loro posizioni o diritti.

Ma qui si pone il problema: quali sono le manifestazioni di protesta possibili? In che misura si possono attuare?

In linea di principio la protesta può essere sviluppata nel rispetto delle leggi vigenti. E allora in Iran, in Russia e in molti altri paesi non si potrebbe protestare, o le proteste dovrebbero essere limitate a metodi del tutto inefficaci.

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In un paese democratico invece, la protesta può svolgersi attraverso riunioni, cortei, sit in, flash mob, e tutte quelle altre forme che sono considerate ‘pacifiche’, perché non comportano la commissione di reati. Sta di fatto però che, soprattutto nei momenti delle grandi manifestazioni studentesche, siano volate in pezzi le vetrine dei negozi, siano state danneggiate auto in sosta e ci siano stati scontri con la polizia, con sassate e manganellate. Le persone perbene e tutti coloro che rispettano il diritto vigente fanno bene a condannare queste intemperanze, ma esse ci sono sempre state, ed è innegabile che i media abbiano sempre dato un grande spazio alle proteste più violente. Ciò significa che, nonostante le condanne politiche e giudiziarie, le proteste con violazione di legge sono paradossalmente quelle più efficaci, cioè quelle che hanno talora condotto a cambiamenti politici o legislativi. Volendo estremizzare il concetto, le proteste più violente, quelle condotte con atti di terrorismo – pur comportando certamente reazioni da parte delle istituzioni degli stati – hanno condotto all’indipendenza di molte colonie e persino il civilissimo stato di Israele deve molto alla fase di terrorismo.

Tutti sappiamo che quando rivoltosi e terroristi hanno successo, sono considerati liberatori ed eroi, se invece perdono vengono impiccati come criminali. Ce lo dimostra, se ce ne fosse stato bisogno, il bellissimo studio di Mario Benigno, “Terrore e terrorismo”.

La cosiddetta dottrina Mitterand, tanto criticata in Italia per aver sottratto alla giustizia italiana terroristi colpevoli di assassini, era certamente fondata su un approccio ideologico che, per quanto contestabile, consacrava il dissenso violento pur nel quadro di un sistema democratico.

Occorre quindi riflettere sul fatto che un elemento importante per giudicare la protesta è senza dubbio la dimensione del danno, del male subito o temuto, dai gruppi minoritari che ne sono colpiti. Poco importa la mia simpatia per i ragazzi che hanno protestato alla facoltà di scienze politiche, o per Laura, Phoebe e le altre due stupende attiviste di Ultima Generazione – non a caso donne come le iraniane – che hanno lanciato una minestra su opere d’arte, peraltro protette da un vetro. La mia personale solidarietà conta poco: sarebbe però opportuno riflettere sui valori che spingono la protesta di questi ragazzi.

I giovani sono la componente dimenticata della nostra società, un po’ in tutto il mondo. E mi domando se anche i famigerati rave non rappresentino in fondo una protesta, una delusione, una insoddisfazione per un mondo che ignora le generazioni future, riservando loro un lavoro povero, un ambiente saccheggiato e distrutto e qualche manganellata.

A questi giovani rischia di rispondere soltanto la repressione, perché poco ci interessano i loro grandi problemi dei quali non sono certamente responsabili.

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