Dialogo con il direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo

Il Centro Studi Cesare Pavese e la chiesa dei SS. Giacomo e Cristoforo: foto di AriPulce – Opera propria, CC BY-SA 3.0, da commons.wikimedia.org

A qualche settimana dall’inizio dell’edizione 2023 del Pavese Festival (dal 5 al 10 e dal 15 al 16 Settembre) incontriamo Pierluigi Vaccaneo, Direttore della Fondazione Pavese che ha sede a Santo Stefano Belbo, nel paese natale dello scrittore, ed in particolare nella chiesa ora sconsacrata dei Santi Giacomo e Cristoforo dove Pavese fu battezzato nel 1908. Arrivato alla sua 23esima edizione il Pavese Festival ospiterà quest’anno tra gli altri l’attore Neri Marcorè, il musicista Mario Biondi e Claudio Baglioni che riceverà il Premio Pavese musica e al Direttore della Fondazione, Pierluigi Vaccaneo, chiediamo qual è l’eredità che ci ha lasciato Cesare Pavese e in che modo la Fondazione che lui dirige continua a divulgarla.

L’eredità di Pavese è senza dubbio ancora molto viva anche se per i primi 50 anni dalla sua scomparsa, la critica ha purtroppo mantenuto l’attenzione soprattutto sulla vita dello scrittore e sulla sua morte suicida e questo elemento è sempre stato la chiave di lettura attraverso la quale si è tentato di raccontare Pavese. E questa è stata la parte più negativa che ha portato il pubblico a concentrarsi su un dato personale, intimo, biografico che ritengo c’entri poco con l’opera, con effettivamente quella che è la sua eredità, cioè ciò che lui ci ha lasciato, ovvero le sue parole, i suoi testi, i suoi scritti. Quello che cerchiamo di fare noi oggi quindi è proprio quello di allontanarci da quella chiave di lettura, perché il suicidio è un fatto troppo intimo, troppo personale per poter essere indagato, soprattutto da chi non conosce direttamente lo scrittore. Sicuramente questo gesto estremo ha contribuito a creare il mito pavesiano, quello di un autore che per tutta la sua esistenza ha cercato sé stesso, come dice spesso lui stesso nel suo diario, lo ha sempre cercato attraverso le sue opere ma si è reso conto di non essere riuscito a trovarlo.

O forse ha fatto questa scelta per gli amori non corrisposti, per esempio l’ultima donna che ha amato e che lui avrebbe voluto sposare, e questo senza dubbio ha contribuito a far nascere quel pettegolezzo attorno allo scrittore che però si è concentrato esclusivamente su un dato personale e biografico. Quindi l’aspetto negativo di tutto questo è che l’analisi del testo dei suoi contenuti era all’epoca già figlio di un approccio nei confronti dello scrittore come suicida, depresso, triste e introverso. Mentre quando poi, in particolare i giovani, nuovi lettori, leggono Pavese, e per esempio, vengono qui alla Fondazione per delle visite o delle gite scolastiche, noi glielo proponiamo attraverso il racconto delle sue opere e dei suoi personaggi.

Allora trovano un compagno di banco, un compagno di viaggio, trovano un amico che ha vissuto le stesse inquietudini, che vive un ragazzo in età adolescenziale o che vive ciascuno di noi nel suo percorso di vita.

Ecco perché, se noi ritorniamo a portare l’attenzione sulla vera eredità che ci ha lasciato Pavese con le sue parole, allora, noi troviamo delle opere ricchissime di vita dove non c’è la morte o meglio se c’è la morte è una morte iniziatica, è una morte rituale che porta ad un’evoluzione della persona.

Cesare Pavese, Strega 1950 – Pubblico dominio da wikipedia.org

Infatti i protagonisti di tutti i libri di Pavese sono tutti giovani, hanno tra i 16 i vent’anni, e vivono quel momento di passaggio dalla vita adolescenziale alla vita adulta che abbiamo vissuto tutti incontrando quello che era proibito, per esempio la sessualità, o quello che è appunto un corpo adulto che cresce e si evolve e ha bisogno di vivere una nuova fase. Questo è ben riconoscibile nella trilogia della Bella Estate, che ha vinto il Premio Strega nel 1950, e che comprende i romanzi ‘La bella estate’, ‘il diavolo sulle colline’ e ‘Tra donne sole’ in cui i giovani protagonisti vivono questa fase di trapasso, attraverso dialoghi infiniti e descrizioni di paesaggi.

Ma questo spiega perché Pavese scriveva? Per non morire?

La scrittura per Pavese era sicuramente terapeutica, cercava sé stesso attraverso la scrittura, per trovare delle risposte alle inquietudini che ogni essere umano ha.  Lui dice che a un certo punto che ha bisogno di capire come mai dalla sua penna esce tutto quel sangue, e studia la psicologia e l’antropologia.

Ma Pavese comincia la sua carriera come traduttore e traduce dall’inglese, in una nazione in cui all’epoca si trovava solo il dizionario italiano/tedesco. Mentre lui impara da autodidatta e traduce autori come Joyce, Melville, Steinbeck e traduce Moby Dick a 22 anni, non facendo una traduzione punto per punto, ma facendo una traduzione da scrittore.

Quindi qual è il ruolo che la sua scrittura ha avuto nell’evoluzione della letteratura?

La sua scrittura ha voluto guardare alla letteratura americana per trovare quello che non capiva. Me lo disse anche Fernanda Pivano quando l’ho incontrata nel 2008 e le ho chiesto come mai Pavese si era interessato alla letteratura americana e lei mi disse con un esempio che all’epoca in Italia si diceva “il fanciullo raggiunge la dimora” mentre in America si diceva il bambino va a casa. Quindi era una dimostrazione molto pratica di quello che era la lingua inglese americana, non l’inglese vittoriano, ma quello inglese imbastardito dai vari dialetti, dallo slang, cioè una lingua immediata, colloquiale, semplice, che tutti possono comprendere e tutti possono parlare.

E Pavese ha visto poi in questo strumento linguistico una potenzialità enorme, perché era uno strumento che si poteva adeguare secondo la sua visione all’Italia, nel periodo in cui stava passando da essere una nazione prevalentemente agricola a industriale e dove serviva probabilmente anche un nuovo un nuovo strumento linguistico che potesse dare voce alle masse di contadini che andavano in fabbrica. Lui voleva razionalmente dare voce al popolo, cioè dare voce democraticamente a tutti quelli che avrebbero potuto leggerlo quindi si serve di una voce colloquiale. Infatti diceva che voleva versare il sangue del dialetto nella lingua italiana. Questo significa che voleva costruire una lingua che fosse democraticamente compresa in tutto il territorio nazionale, quindi che fosse chiaramente un italiano accessibile, ma che avesse al suo interno quella potenza semantica, ad esempio, che aveva lo slang americano e che hanno solo i nostri dialetti. Per questo all’inizio viene riconosciuto come scrittore Vernacoliere che usava il dialetto ma questa operazione viene compresa poi successivamente.

Firma di Cesare Pavese – Foto pubblico dominio da wikipedia.org

Ma la sua scrittura è soprattutto essenziale, infatti gli incipit dei romanzi di Pavese, le prime 15 righe di tutti i suoi romanzi sono opere d’arte, meravigliosamente essenziali e non se ne può cambiare aggiungere o togliere neanche una virgola.

 

Quindi il linguaggio di Pavese rappresenta la sua eredità?

La sua eredità, la sua realtà, è il messaggio che lui vuole lanciare attraverso il linguaggio e attraverso i contenuti. La sua eredità è quello che troviamo in tutte le opere, è un messaggio di abbandonarsi alla vita. Attraverso le sue opere ci insegna ad essere i personaggi delle sue opere. Che cercano la vita, che cercano l’abbandono alla vita, l’abbandono al momento iniziatico di passaggio dalla vita adolescenziale alla vita adulta, perché se non lo vivete in quel periodo non lo potrete vivere più. Lui ha tentato di riviverlo a quarant’anni. All’epoca, a 40 anni si era già un po’ più adulti di oggi, ma non funziona. Non puoi recuperare un pezzo di vita che non hai vissuto attraverso una lettura solo intellettuale.

So che hai studiato e lavorato qui nella biblioteca della Fondazione e hai scritto dei saggi su Pavese, oltre al libro “A Torino con Cesare Pavese” ma quali sono oggi i principi che guidano la tua attività di divulgazione di Pavese e la tua direzione della Fondazione?

In passato la divulgazione culturale aveva un approccio elitario che non dialogava con il grande pubblico, anzi scollegava la cultura dal mondo, che è esattamente l’opposto di quello che vogliono fare gli scrittori che scrivono per essere letti, e non da pochi, quindi noi oggi vogliamo tentare di fare uscire Pavese dal museo e portarlo tra le persone in mezzo alla gente. Per farlo è in parte necessario rinunciare un po’ alla nostra autorevolezza ma permettere che la divulgazione culturale sia un atto partecipato dove la cittadinanza si vede rappresentata e si sente parte attiva di questa creazione e in fondo dove la cittadinanza smette di essere cittadinanza ma diventa comunità, non passiva di fronte alla produzione culturale. Oggi, anche grazie alla rivoluzione digitale, tutto questo è un po’ più semplice perché riusciamo anche ad arrivare ad un pubblico più ampio, mantenendo pura il livello di qualità delle cose che facciamo.

Per esempio attraverso le sale multimediali del museo presenti nella sede della Fondazione, con l’app di lettura condivisa Betwyll oppure i podcast che usciranno a settembre in collaborazione con Chora Media (choramedia.com) dal titolo “Era sempre Festa” e naturalmente mantenendo vivo il successo del Pavese Festival che negli scorsi anni ha attratto migliaia di visitatori, con una programmazione diffusa sul territorio e che quest’anno arriva fino a New York, alla Casa Italiana Zerilli-Marimò.

In quest’occasione verrà presentata la ricerca accademica sul Fondo Molina commissionata dalla Fondazione Cesare Pavese a Iuri Moscardi, dottorando in letterature comparate al Graduate Center della City University di New York e curatore della rubrica di critica pavesiana Dialoghi con Pavese pubblicata sul sito della Fondazione.

Foto di apertura pubblico dominio da wikipedia.org – Cesare Pavese