Il piacere come bene essenziale. Quello riprodotto a fianco è il manifesto di uno dei festival più singolari del panorama cinematografico francese. Si chiama “Ciné DélicesFestival du Cinéma Hedoniste”. Il suo motto è: “Le plaisir comme un bien essentiel” e il suo nume tutelare è Luis Malle, che poco più a sud, ai confini della Guascogna, girò uno dei suoi film più belli, l’incantevole “Milou a maggio”. Nato nel 2012 a Cahors (Midi-Pirenées), che l’ha ospitato fino al 2022, di solito dura una settimana. Nella nuova sede di Prayssac, trenta km più in là, si è svolto quest’anno in edizione ridotta, ma nel rispetto della stessa, irrinunciabile nota identitaria: quella di una kermesse in cui si mangia, si beve e si guardano bei film all’insegna dell’unione fra cinema e “bien vivre”. Aperta con la proiezione di “Perfect days” di Wim Wenders, la XII^ edizione si è chiusa con i film di due donne: l’italiana Alice Rohrwacher (“La chimera”) e la trentottenne georgiana Eléne Naveriani (“Le merle et la mûre”, il merlo e la mora), nessuno dei tre ancora uscito in Italia. In mezzo, tra film di diverso metraggio, un corto con un titolo che è una lusinga: “ Addio rotonde” (“Adieu Rond Point”) di Xavier Delagnes. In Italia toccherebbe stracciare un intero capitolo già scritto del PNRR.

Che cosa sia un cinema edonista è cosa che scopriremo solo vivendo. Legando cinema e “gourmandise”, il manifesto del festival si appella a quella “cultura materiale” cara ai francesi. È il “Faictz ce que vouldras” di Rabelais, a cui Marco Ferreri dedicò un film per la televisione francese. Un cinema che “fa star bene”.

Facile riconoscerlo? Mica sempre. Dice Woody Allen che quando si parla di cinema divertente, il suo problema è spiegare che quando vede un film di Antonioni, lui si diverte. Il che spariglia molto le carte di un sentire diffuso. Io, che la penso come lui, faccio ugualmente molta fatica a definire edonista Tre piani” di Moretti, presentato qui due anni fa. Ecumenicamente “Ciné Délices” apre ad un ventaglio molto ampio di sensibilità in merito. Celebra con “L’eclat de rire” i vertici universali del cinema comico (Chaplin, Keaton, ecc.), ma non rinuncia a onorare quel principio più generale di godibilità che è il fondamento di un’arte che aspiri a migliorare il mondo senza pretendere di ammaestrarlo.

Questo festival dedicato al buon cinema ha aperto l’anno scorso le porte dell’Europa a un curioso film giapponese di tre anni prima: “La famiglia Asada”, di Ryota Nakano, cinquantenne ancora poco o nulla noto al di qua dell’oceano. Il titolo internazionale: “The Asadas”, sembra ispirato a “The Fabelmans” di Spielberg, uscito un anno prima ma girato un anno dopo, ed effettivamente qualcosa in comune i due film ce l’hanno. Al di là del ritardo di tre anni, il cammino di “Foto di famiglia” (questo il titolo italiano), introduce ai misteri della distribuzione e delle nostre idiosincrasie. Un piccolo caso in Francia – segnatamente a Parigi – dove fra gennaio e marzo, ha raccolto con poche eccezioni (“Le Monde”, “Positif”) recensioni più che lusinghiere, teniture ragguardevoli nei grandi circuiti e un riscontro economico di quasi due milioni di euro; un disastro in Italia, dove ha retto a malapena due settimane (64.000 euro al box office), prima di essere tolto per non annoiare le sedie. L’Italia non è mai stata un buon mercato per il cinema giapponese.

Anche l’immenso Hirokazu Kore’eda, uno dei grandissimi del cinema contemporaneo, stenta persino quando vince a Cannes e la maggior parte dei suoi titoli è ancora inedita da noi. Ma c’è modo e modo, flop e flop. Un risultato del genere non esprime neanche un rifiuto (per questo parlo di distrribuzione), quanto il non sapere che  esisti. Nakano non è certamente Kore’eda, ma meritava di più.

Se l’adolescente Sammy Fabelman si appassiona al cinema vedendo un film e il regalo di una piccola cinepresa sprigiona una prepotente vocazione, Masashi Asada – il fotografo dalla cui biografia è tratto il film – scopre nell’analoga circostanza di un regalo la passione per la camera oscura. Entrambi trovano il primo soggetto nella propria famiglia, ma mentre l’infelicità della famiglia di Sammy è immedicabile e nulla può l’eccezionale talento del figlio, la famiglia Asada compensa nell’unione la delusione di ognuno dei suoi componenti  per quello che avrebbe voluto essere e non è stato e la fantasia del figlio la rinsalda, volgendo questi sogni infranti in sketch fotografico e parodia. Sogni ingenui e buffi – uno avrebbe voluto fare il pompiere, l’altra la donna della Yakuza, un altro lo chef di una grande cucina – di una famiglia anche divertente, in cui l’unico vero motivo di preoccupazione, alla fine, è proprio il giovane fotografo bohemien, carente di attitudini professionali (“vulgo”, voglia di lavorare) e renitente anche all’impegno sentimentale.  Ma qui finisce il fragile parallelo fra le due famiglie: quella ebreo-americana del maestro del cinema, divisa e infelice, e quella nipponica, unita e piccolo borghese, del fotografo di successo. Perché nella seconda parte “Foto di famiglia”, come la vita del protagonista ha una svolta.

Lo tsunami. È il 2011, l’anno del maremoto e di Fukushima. Il Giappone orientale è in ginocchio. Masashi, il cui primo libro (quello degli sketch familiari) non vende, parte volontario per i luoghi del disastro, dove un gruppo di giovani monatti dell’immagine fotografica è impegnato in un’attività un po’ speciale: raccogliere, fra le suppellettili distrutte e abbandonate sotto le macerie gli album fotografici, le scatole da scarpe con le foto di famiglia, i ritratti nelle cornici disfatte e nei calendari, financo i “Non correre, pensa a me”,  per riconsegnarli ai proprietari. Un materiale sterminato verrà raccolto al primo piano della scuola in immensi tableaux, schedato e archiviato, a disposizione dei legittimi pretendenti. Intorno a quei tableaux si ritroverà un paese e quando, nel giro di pochi mesi, quasi tutte queste foto avranno trovato casa e ristabilito memorie e affetti, il locale potrà tornare alle sue funzioni. Ma a dodici anni dalla riconsegna dei locali, l’ufficio è ancora aperto. Non si sa mai.  Ma rimarrà comunque, a memoria dei volti, ormai senza nome, di chi probabilmente non rientrerà più nella condivisione affettiva e sociale, se non in questa forma anonima di suffragio. Un buco nel tessuto di una comunità, come le bruciature nei sacchi di  Burri.

IL “WHAT THE FUCK!” DELLA CORTELLESI.

Da un esempio (buono) di cinema “edonista”, cioè oorientato al piacere dello spettatore, apprezzato finora solo in Giappone e in Francia, a uno (migliore) destinato a diventare il più strabiliante successo commerciale italiano di questi anni (Zalone è il nome di un altro pianeta). Oggi, 20 novembre, “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi, superati alla bersagliera i 18 milioni di incasso, vede vicino il gran premio  della montagna dei 20 milioni in un mese. Che per i nostri standard sono il fantastiliardo di Paperon De’ Paperoni. E siccome ha ancora la  garra del primo giorno e, caso raro, la maggior parte della critica sta al passo dell’entusiasmo, può solo crescere. Se il piacere, come scrivono i creatori di Ciné Délices, è un bene essenziale, faccia e parole di chi esce dal cinema dopo il suo film fanno di Paola Cortellesi una benefattrice dell’umanità. E dalla via che siamo in clima di iperboli (poi smetto), azzardo un’ipotesi: “C’è ancora domani” ha molte carte in regole (se bastano lo vedremo, manca un anno) per essere il “La vita è bella” di questo quarto di secolo. Benigni e Cortellesi: due irregolari che scompigliano il campo registico dei valori consolidati, ottimi attori passati alla regia coinvolgendo nell’applauso il colto e l’inclita. E poi, la politica come educazione sentimentale di massa; i piedi nel piatto dell’oggi e della storia; temi e linguaggio in grado di parlare al mondo; la commozione anche dei più arcigni e prevenuti perseguita in forme inedite, sorprendenti e rischiose. È il vero “What the fuck!”. Altro che quello dei funzionari Netflix del “Sol dell’avvenire”..

Ci sono film che raccolgono come in una coppa i loro succhi nel finale. “C’è ancora domani” è uno di quelli, e se chi legge questo articolo probabilmente lo ha già visto, chi non lo ha visto non merita che qualcuno glie lo racconti prima. Personalmente, mi limito a qualche osservazione a margine.

Alto artigianato. “C’è ancora domani” è il prodotto artigianale di due premiate officine: le famiglie Milani-Cortellesi e Comencini-Calenda. Indirettamente, anche del Made in Italy. Oltre alla regia e al soggetto, Paola Cortellesi firma la sceneggiatura con Furio Andreotti, sceneggiatore di fiducia della casa, e Giulia Calenda, figlia di Cristina Comencini. L’accurata ricostruzione ambientale testaccina, è di Paola Comencini, zia della sceneggiatrice. Interni a Cinecittà.

Habeas Corpus. “C’è ancora domani” è una commedia, nel senso migliore del termine, e questa sua natura viene amorevolmente salvaguardata anche dove parrebbe più difficile, aprendo anche al balletto ironico e al musical. Le canzoni che la accompagnano non sempre funzionano, come contrappunto: “La notte dei miracoli” di Lucio Dalla, per dire, sembra messa lì per una scelta puramente di gusto (mi piace – e vorrei anche vedere – e ce la metto) ma non c’entra molto. È una canzone da Piazza Navona, non da Testaccio. In genere però funzionano, compresa quella che sembrerebbe più fuori contesto di tutte. Vi sorprenderà leggerne il titolo fra quelli della colonna sonora. La scelta lodevolmente antirealistica di salvare la soldatessa Commedia, anche quando intorno tutto sembra espellerla dal gioco e renderla persino fastidiosa, è importante. I ragazzini sono troppo pestiferi e il vecchio troppo coglione? Vero, ma fa parte dell’esemplarità del gioco. E quel rigoroso Habeas Corpus (la violenza è fuori campo) asciuga l’occhio e dà forza al grido. Rispetta i corpi, vi pare poco? Solleva i cuori e le menti, più degli sberloni a pelle e indica la strada. Non fiori per la povera vittima del marito violento, ma opere di bene. Alzatevi e camminate. Anzi, ballate. Sbeffeggiate. A bocca chiusa, come canta Daniele Silvestri.

Bianco e nero. Corre voce che per aderire al modello neorealista  (la storia, si sa, è ambientata nel ’46) “C’è ancora domani”  sia un film in bianco e nero. Non credeteci. Quel bianco e nero non esiste più. È morto, sepolto. Era quello di “Ossessione”, di “Roma, città aperta”, di “Cronaca di un amore”. Di “Umbero D.”. Di Clara Calamai, della Magnani, della Bosè. Della Bergman. È scomparso con quei corpi, quei paesaggi, quelle pettinature, quelle ascelle. La televisione ne ha innaturalmente prolungato la vita per trent’anni, producendone artificialmente la nostalgia. Ma era già un’altra cosa. Riprodurlo adesso, anche se fosse possibile, sarebbe farne un calco cimiteriale. Come le fotografie del neonato a pancia in giù e a culo nudo, o quelle alonate e matronali delle nostre nonne al camposanto. Sarebbe un patetico inganno. Il bianco e nero di oggi, quello di “Manhattan” o di “Roma” (Cuaròn), è una raffinatissima operazione di ricerca estetica. Quello di “The artist”, il film francese che sbancò agli Oscar, una (simpatica) furbata. Quello di  “C’è ancora domani”, una citazione: fra virgolette, come tutte le citazioni serie. “C’è ancora domani”  è un film a colori: tutti quelli che ci sono fra il bianco e il nero. Sembra un gioco di parole, non lo è. Lo ha messo in chiaro il genio di Fiorello, quando ha invitato la neo regista: schermo diviso in due, a colori lui, in bianco e nero lei, alla sua sinistra. Ma bastava spostare una mano, per l’uno come per l’altra, perché questa mano cambiasse colore. Un trucco, un clic, due modalità di colore. Come mettersi e togliersi un paio di occhiali. Può darsi che l’ascella rasata di Romana Maggiora Vergano – nel film la figlia della protagonista – sia un errore sfuggito alla segretaria di edizione o a chi per lei. Ringrazio chi lo ha notato, confesso che non me n’ero accorto. Ma penso che andrebbe rivendicata. Anzi, pretesa, come le virgolette prima e dopo una citazione. Come l’ombra del top sul seno delle ragazze nel “Fiore delle Mille e una notte”. Certo che al tempo di Sheherazade le ragazze non prendevano il sole in bikini. Non lo prendevano proprio, se è per quello (non lì) e la cosa non dovrà essere troppo evidente, a meno che non siamo in un film dei Monty Python. Ma se faccio un film oggi i corpi, come i paesaggi, saranno quelli di oggi. Altrimenti perché non anche i baffi o le gambe pelose per le mamme e le nonne testaccine e “neorealiste” del ’46? E le unghiette nere per i ragazzini e i vecchi? (Ti è morto il gatto? chiedeva il maestro). Il cinema è sempre contemporaneo. Come il colore, anche quando gioca con il bianco e nero, se il regista pensa a colori e parla ai contemporanei.

Fanelli. Tutti gli attori, grandi e piccoli di età, reggono bene il gioco. Anche Mastandrea, in una delle parti più odiose in carriera. Ma  una segnalazione particolare va a Emanuela Fanelli, l’amica del cuore di Delia. Dev’essere stato divertente vederla all’opera come maestra d’asilo, qual era prima di arrivare in televisione con Valerio Lundini in “Una pezza di Lundini”. Non a tutti piace questo umorismo stralunato, ma al cinema si sta rivelando una caratterista con i fiocchi. Ha già vinto un David di Donatello come non protagonista per “Siccità”, di Paolo Virzì, e potrebbe vincerne un altro per la soccorrevole fruttivendola di “C’è ancora domani”. Lo meriterebbe, perché è brava davvero. Brilla con la protagonista in uno sketch delizioso, in cui le due amiche si passano le battute con la sapienza teatrale di una studiatissima “improvvisa”. Una bella sorpresa, ne sentiremo parlare a lungo.