Ci sono incontri che cambiano la nostra esistenza in maniera fatale. Incontri che a loro volta determinano degli avvenimenti che vanno a intrecciarsi con altri, creando una rete fittissima di linee. Linee che infine vanno a formare un disegno geometrico che rappresenta la nostra vita.  Se noi riuscissimo a guardare questa nostra vita dall’alto, come da un elicottero, avremmo molto più chiaro il nostro percorso e riusciremmo ad evitare molti errori. Ma ciò non è possibile. Vaghiamo per le oscure stanze della nostra esistenza e, intrappolati come in un labirinto dai mille sentieri stentiamo a trovare la via d’uscita.

Il nostro incontro ebbe inizio circa un anno e mezzo fa, due persone che vivono quasi all’opposto della società cosiddetta civile, uno rappresenta il bene, Giampaolo, un avvocato penalista, e l’altro il male, un detenuto Marco che sconta la sua pena. Per ragioni legali si incontrano e scoprono di avere molte cose in comune, ed inizia un nuovo rapporto, oltre al fatto della difesa legale, tra di loro c’è uno scambio di idee, di progetti, ma soprattutto nasce una vera amicizia.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Marco deve incontrare il suo legale, ma la sua testa non si ferma mai e pensa… Siamo all’inizio del 2015, gennaio è il primo mese dell’anno, e in carcere da sempre è quello più duro, il più difficile, sono trentuno giorni ma non passano mai, sembrano infiniti, forse perché si pensa che davanti si ha tutto un calendario da girare, inizio e fine sono così relativi, ma chi lo vive come me capisce il significato, ecco, mi chiedo se Giampaolo si è mai posto questo problema del tempo. Oggi, quando lo vedrò, vorrei domandargli proprio questo, per lui il tempo cos’è? Sicuramente abbiamo due diversi punti di vista di vederlo, ma è lo stesso tempo. Per me i giorni hanno tutti lo stesso sapore amaro, hanno lo stesso numero, la stessa monotonia, certo ci sono giorni che cerco di ricordare il mio passato. Quei giorni me li sento addosso, dentro, dappertutto, ma poi scopro che i ricordi sono molto annebbiati e faccio fatica a ricordare. Nell’aprire la scatola delle emozioni ho ritrovato un piccolo segreto che oggi gli rivelerò: “La vita, per chiunque abbia l’ardire di credere in lei, è un ingegnoso gioco di specchi. La realtà esterna riflette il nostro stato d’animo e di chi ci circonda. Se viene scombussolata da giudizi di una persona, significa che ti stai specchiando in una parte di te che non sei ancora riuscito a risolvere. A chi non ha problemi con il giudizio, il giudizio degli altri scivola addosso. Li ascolta, ma non se ne lascia condizionare. Prenditi tutto il tempo, ma non lasciare che il tempo si prenda tutto”.

Che strano, ripensando a questo segreto ho pensato che fuori da questo posto la gente vive freneticamente la giornata e, quando torna a casa la sera, si rende conto di non aver avuto tempo per fare tutte le cose che aveva programmato, mentre noi che viviamo all’interno del carcere non vediamo l’ora che il tempo passi, che passi così velocemente per far arrivare il giorno della sospirata libertà, ma forse tutti noi ci scordiamo che il tempo è uno solo, ed è uguale per tutti. Il sole nasce ogni giorno e muore ogni notte, nelle ventiquattro ore si consuma il ciclo della vita, ma non c’è differenza o forse sì, siamo noi che non la vediamo.

Ecco, finalmente è arrivato il momento del nostro incontro, ho sentito il mio nome uscire dall’altoparlante, ora vado a incontrare il mio avvocato. Giampaolo, o meglio dire il mio nuovo amico Giampaolo. Salgo le scale che portano a questo corridoio pieno di stanze tutte uguali, asettiche e fredde, ed aspetto il mio avvocato Giampaolo, scelgo la stanza, ma sono tutte uguali, un tavolino e due sedie molto spartane. Spero che Giampaolo arrivi sempre con qualche buona notizia e in questo lasso di tempo oscillo tra la nostalgia per ciò che ho smarrito e l’angoscia per quanto dovrò ancora affrontare. L’unica emozione che fatico ancora a riconoscere è il coraggio: forse perché legato a questo presente, il coraggio di non essere più solo a combattere, ma ora da un po’ di tempo non lo spero neanche più, ora cerco in lui un amico, con cui trovare dei punti in comune. Ero in cerca di regole, di ringhiere che mi aiutassero a superare il timore di cadere nel vuoto, di qualcuno capace di accogliermi e considerarmi per la persona che sentivo di essere, ma che non ero in grado di definire. Per non sentirmi il solito detenuto rompiscatole, ora nella mia testa ci sono tante idee, tanti progetti che vorrei realizzare ed uno di questi la vorrei fare proprio con Giampaolo. Certo, non cerco neppure un sostegno morale, non è il suo compito, oggi ho compreso il valore della vita, risiede nello sforzo di equilibrio che compio ogni giorno per dare un senso a tutto questo. Noi due ci capiamo e lui sa cos’è per me il carcere, ora i nostri intenti sono condivisi e questo mi piace molto.

Giampaolo attraversa la città in macchina per arrivare a Rebibbia. Gli stessi percorsi urbani. Prima di svoltare per via Majetti il carcere per me è solo immaginato. È come i cimiteri fuori dalle mura, bisogna andarci, consapevole che quella sorte ci appartiene. Il carcere è un corpo, non deve essere mostrato. Solo rappresentato. La realtà gioca con la finzione. Veicolato opportunamente. Contenitori speciali. Di rifiuti e di vite. Come la città prima di svoltare per via Majetti. Le alte mura grigie e silenziose mi riportano alla concretezza del mondo. Agli angoli del lungo viale, fortunati detenuti scopini, fumano pigri al sole.

Mi focalizzo sulle persone da incontrare nei colloqui.  Nella sala avvocati prima di essere chiamato per gli incontri, noto che non ci sono orologi da parete. Tanti ne campeggiano invece in bella vista in ogni luogo che attraverso. Tutti in compagnia di santini colorati. Quasi sempre in coppia con ramoscelli d’ulivo impolverati e seccati dal tempo, fissati alla parete da un pezzettino di nastro adesivo, declinati in avanti come se soffrissero, crocefissi, di una pena propria, separati dal loro albero madre. Coreografie penitenziarie. Ho notato curiosamente che nonostante il numero di orologi da parete che si incontra, ciascun orologio riporta un’ora differente. A parte quello della portineria, al piano terra, che è fermo da anni sulle undici e venti. Sarà perché qualcuno negli anni passati lo deve aver collocato troppo in alto pertanto raggiungibile solo con una scala. La catena di comando, dalla scala da reperire all’omino che va in alto a cambiare la batteria, deve essere mutata con il tempo come il camaleonte muta il proprio colore. In carcere gli orologi invecchiano inutilmente. Un’altra curiosità è che questi orologi indicano orari differenti ma sono tutti con un’ora in dietro rispetto al mio Swatch. All’interno del carcere, le lancette sembrano misteriosamente battere un tempo diverso rispetto a quello che regola la vita oltre le alte mura di cemento di via Majetti. Come vi fosse una sadica regia, il tempo diventa più lungo.

Avvocato è arrivato il suo cliente, questa voce interrompe il mio pensiero, ora arriverà Marco, abbiamo molte cose da dirci…

Dopo i saluti ci troviamo seduti uno di fronte all’altro, abbiamo quasi imbarazzo a parlarci, Marco prende coraggio e gli domanda: “Sai, Giampaolo, volevo chiederti cosa ne pensi tu del tempo, perché per noi è fondamentale, è come l’universo che ha un senso, che spesso non è comprensibile ai miei sensi”.

Giampaolo prima di rispondere prende fiato e poi inizia a parlare:

Foto di Bruno da Pixabay

“Marco mi fai pensare…È strano come questo luogo appartiene a un tempo improprio, del fine pena “mai”.  Come l’orologio alla parete in portineria. È lì, sporco, solitario e qualcuno, alzando gli occhi, lo nota con indifferenza, ma nessuno lo può raggiungere, è stato appeso troppo in alto, segna un tempo senza fine, nessun tempo. È orrore il fine pena mai. Il mio tempo si contrappone al tuo tempo Marco, come la finta libertà si contrappone alla cruda reclusione. Il mio tempo che scorre e si perde come acqua inghiottita dalla sabbia ed il tempo per definizione improduttivo della vita di “dentro”.  Tu ed io, padroni di una memoria, ma entrambi con un futuro di cui non si ha certezza. In carcere i detenuti sembrano tutti aspettare qualcosa, una qualsiasi piccola cosa da sfruttare per sé.

Una lettera un colloquio, un permesso premio, l’ora d’aria, la scadenza della pena. D’incontrare qualcuno. L’educatore, il magistrato, l’avvocato, i familiari. Ma nessuna di queste cose e nessuno di questi incontri è davvero decisivo, nulla produce un vero mutamento. Tutti l’aspettano un cambiamento, ma nessuno glielo può dare. Si ritorna nella stanza. Con le proprie cose. Con il proprio tempo. Con la speranza che qualcosa o qualcuno possa far cambiare la situazione. Io penso questo del tempo”.

Marco guarda Giampaolo, rimane stordito come se fossi stato colpito da un cazzotto alla bocca dello stomaco, quello che mi ha detto lo rivedo sulla mia pelle, mi chiedo come è potuto entrare nella parte più profonda della mia anima. È come se avesse capito che in questa parte nascosta dell’universo esiste un mondo non visibile agli occhi, in cui si aggirano sagome vibranti di luce. Sono le nostre anime. Il mondo esterno non vede la tua anima, non gliene importa un accidente delle speranze, dei sogni e dei dolori che si nascondono oltre la nostra pelle e nelle ossa.

Giampaolo continua il suo pensiero:

“Si ha vergogna di vivere un tempo improduttivo. Occorre mostrarsi sempre indaffarati. Il tempo da reclusi non lascia tracce visibili ma apre solchi nell’anima. Il presente è il momento della pena, è una parentesi nella propria esistenza, che può durare anni di sospensione temporale a cui è difficile dare un contenuto significativo per sé stessi. In questa condizione il passato si materializza in forma di colpa, diventa l’ossessione del proprio presente, continuamente rimuginato. Per i più il passato è l’unico materiale esistenziale su cui lavorare. Il passato è la prova che una vita diversa esiste e che in un tempo remoto si è stati in possesso della propria esistenza. In queste condizioni la presa di coscienza di sé che è un passaggio fondamentale del percorso educativo è destinata a fallire o ad essere adorato come un dio pagano ma privo di qualche effettiva efficacia”.

Marco gli prende la mano, quasi senza pensarci, e la strige forte, riaprendo una ferita profonda dentro di me, le aveva dato una giustificazione e ora all’improvviso, tutto ora aveva un senso.

Grazie Giampa, la tua presenza ora è la tua assenza

Foto di apertura: Mohamed Hassan da Pixabay