ovvero “carcere e suicidio: una riflessione (più) articolata e una reazione (auspicabilmente) concreta

Si narra che gli armatori arabi del Medio Evo chiedessero agli aspiranti marinai di indicare – ad occhio nudo – il numero delle stelle dell’Orsa Maggiore: quelli che rispondevano “sette” (come in una “timida serenata” di quando ero bambino) venivano scartati, perché ad occhio nudo – e sano … – le stelle visibili del Gran Carro sono otto: la seconda stella del “timone”, infatti, è costituita da un sistema di due stelle, chiamate Mizar ed Alcor (appunto). Questo test, in uso da secoli e codificato da Riccioli nel 1650, ha trovato conferme nella scienza moderna, che ha appurato che le stelle sono sì separate (in realtà sono sei: ciascuna di esse è a sua volta un sottosistema, quadruplo per Mizar, doppio per Alcor) ma sono sempre collegate gravitazionalmente fra loro: quindi è sbagliato considerarle una, ma non è neppure corretto dire che vanno ciascuna per proprio conto.

Un noto Collega ex-PM mi chiederebbe “che ci azzecca” tutto ciò con i suicidi in carcere: ho introdotto il ragionamento con questo esempio da astrofilo perché credo che occorra mantenere distinti i due fenomeni, che “costellano” la nostra esperienza quotidiana di persone normali, ma ne sono – e restano – distanti (forse un po’ meno degli anni luce – 83 mal contati – che ci separano dalle due stelle di cui sopra).

I casi della vita mi hanno portato ad avvicinare carcere e suicidio sul piano esperienziale, da un lato come volontario in un “Laboratorio di lettura e scrittura creativa” attivo da 30 anni nella Casa di reclusione di Milano-Opera e dall’altro, più di recente, come componente di Comitati Etici, organismi multidisciplinari che intervengono nel procedimento autorizzativo dei protocolli di ricerca clinica, valutandoli nella loro congruità scientifica d’insieme, in particolare nell’ottica e nell’interesse dei pazienti: una sentenza della Corte Costituzionale, la n. 242 del 2019 – emessa in perdurante assenza di una legislazione sul fine vita rimasta “incrodata” fra veti reciproci, dei quali tutte le parti in causa, tutte, sono scandalosamente corresponsabili – ha attribuito ai CC.EE. la competenza a valutare le istanze di suicidio assistito (con tutto il rispetto per la Consulta, la decisione appare tanto salomonica quanto inappropriata, se non fosse per la necessità di indicare, faute de mieux, di un livello istituzionale esistente ed organizzato: ma questa è un’altra storia).

Cercando quindi di “aguzzare la vista”, carcere e suicidio mi appaiono come due punte d’iceberg che forse, nella parte sommersa, arrivano se non a saldarsi di certo a toccarsi in più punti: ancora una volta l’esperienza ha aggiunto per me un tassello importante, perché nell’ultimo anno e mezzo ho seguito nell’ultimo tratto della sua vita, come amico e a fianco di personale sanitario eccezionale (purtroppo … raro), un ex compagno di liceo cui era stato diagnosticato un tumore non trattabile e che a fronte di una prognosi di 15 giorni è sopravvissuto, bene, per oltre 16 mesi. Come immaginabile con un professore di filosofia, abbiamo spesso parlato di suicidio (non assistito) e di carcere (nel senso simbolico di una vita che, pur restando possibile, apre prospettive sempre più anguste (e, dal punto di vista della sofferenza non solo fisica, assai … angustianti), concludendo sempre che per chi non si arrende – anche perché ha la fortuna di trovare chi lo segue/accompagna – “un passo avanti è sempre possibile”.

La statistica è incompleta e ci dice anche, ahinoi, che in carcere sono numerosi anche i suicidi degli agenti di custodia – se non quanto quelli delle persone detenute, certo in misura non trascurabile, e non fanno notizia – e che, dall’altro lato, il suicidio è spesso una “via d’uscita” da situazioni non più tollerabili che, se nei casi più clamorosi possono far richiedere un intervento di assistenza, nella maggior parte dei casi si presentano in contesti anche più normali. In altri termini, non c’è bisogno del carcere per star male e il male non è solo quello fisico. Al tempo stesso, la statistica indica che per le persone detenute che finiscono di scontare la pena e tornano in libertà (momento di massima fragilità e di totale assenza di misure sociali di protezione ed accompagnamento, a differenza di Paesi come ad es. la Germania) ricadono nei reati che li hanno condotti in carcere nel 70% circa dei casi, ma che tale percentuale si riduce al 20% per coloro che durante la pena hanno avuto accesso alle cosiddette “misure alternative”: però tale accesso è possibile per una quota irrisoria di persone detenute (ad Opera una ventina su una popolazione di 1500 persone).

Per non fermarsi alla pur sacrosanta indignazione e ad una denuncia astratta, ma ad alto rischio di sterilità, occorre allora “risolvere” (in senso astronomico) l’apparente endiadi ed operare di conseguenza. Carcere e suicidio saltano ai nostri occhi – almeno così la penso io – perché associati ad una connotazione di fallimento e di separazione rispetto alla vita individuale e sociale che scorre regolare fuori di luoghi e di situazioni che stanno invece nel tessuto più “vivo” delle nostre città – magari pure “fisicamente” in casi come San Vittore o Regina Coeli: l’elemento accomunante è il concetto di “morte”, temporanea in carcere (ma non dimentichiamo il “fine pena: MAI”) o definitiva nel resto dei casi (anagrafica, carceraria e non): un concetto che comunque la si rigiri è immanente alla nostra prospettiva umana.

Per restare al nostro ambito d’interesse odierno, credo che l’idea sottostante a molte esperienze e proposte di volontariato in carcere, miranti ad introdurre sempre più modalità alternative alla mera (e nullafacente) reclusione/costrizione comportamentale, sia quella di costruire da un lato relazioni interpersonali che mantengano uno spessore di dignità all’esistenza dietro le sbarre (“Sbarre di zucchero” ne è una bellissima ed efficace immagine) ma anche facciano intravedere possibilità di mantener vivo un rapporto fra dentro e fuori (un’altra immagine che mi è cara è quella delle “Mura trasparenti”, che abbiamo promosso anni fa diffondendo a Milano, con l’aiuto del Comune, le poesie dei partecipanti al Laboratorio di Opera su manifesti stradali e sui mezzi pubblici: ma anche realtà come il ristorante “In galera”, aperto con coraggio nel carcere di Bollate, che fa imparare un mestiere che ai partecipanti consente di guadagnare qualcosa per le famiglie durante la pena e di avere una chance di inserimento in più come cuochi o camerieri, a valle di essa, meritano di essere meglio conosciute e più – encomiabilmente – imitate).

Il bello, il buono, il concreto accorciano le distanze fra mondi che “il logorio della vita moderna” tende ad allontanare, ma che restano in “collegamento gravitazionale” fra loro, come nel caso di Mizar ed Alcor. Questa è una prima, fondamentale chiave di lettura (e d’intervento) su una realtà altrimenti destinata a deteriorarsi in modo inesorabile. Sarebbe bello poter eliminare le carceri come alcuni sostengono, idealmente of course (oggi come oggi sbarre e mura sono purtroppo necessarie): ma occorre anche fare concretamente qualcosa perché non vengano rimosse dal nostro contesto quotidiano (non soltanto urbanistico) e perché al loro interno e attorno ad esse vivano e crescano attività ed iniziative che cercano di rispondere al bisogno disperato delle persone private della libertà (magari per brevi periodi), di non essere dimenticate durante e dopo il periodo di detenzione. La moltiplicazione di proposte in questo senso e la loro accoglienza da parte di un’Amministrazione illuminata – magari con qualche tentativo “istituzionale”, e non solo la buona e lungimirante volontà di alcuni Dirigenti, di allargare l’ambito delle misure alternative (verificandone scientificamente modalità ed effetto) – potrebbero rendere il volontariato non più solo “vicariante” delle aporie del sistema ma costituire un più autentico passo avanti, al quale dare appoggio e sostegno di opinione e di collaborazione personale.

Se la risposta istituzionale è solo quella di aumentare il numero di reati e così mandare più gente a “marcire in galera”, od attuare piani di costruzione di strutture-falansterio dove l’isolamento individuale è, se non l’unica, la principale modalità di gestione delle situazioni più problematiche, non andremo lontano e credo saremo, con frequenza più o meno periodica, a compiangere chi non ce l’ha fatta più perché non si è cercato di prendersi cura di una sofferenza, fisica o spirituale, che molto più spesso di quanto siamo disposti ad ammettere è alla base delle devianze e/o dei comportamenti criminali (di possibili assimilazioni fra suicidio e realtà sanitarie-ospedaliere magari parleremo un’altra volta, e c’è anche lì di che riempire molte pagine).

Foto di apertura di Martin Baessgen –  CC BY-SA 2.5