Continuiamo la serie di pubblicazioni di un professore di Kharkiv, che tiene un diario fin dai primi giorni dell’invasione russa dell’Ucraina. Questa volta descrive la vita nella sua città natale quest’inverno.

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29 febbraio 2024

KHARKIV NELL’INVERNO DEL 2023/24

La neve attacca Kharkiv ogni giorno, senza tregua. L’inverno considera questi territori suoi da sempre, per il semplice motivo che la neve c’è stata qui l’anno scorso, l’anno prima e cento anni fa, mentre il disgelo e le primavere sono solo errori della storia [l’autrice fa un riferimento sarcastico alla narrativa di Putin, secondo cui il territorio dell’Ucraina è terra “russa da sempre”].

Non ho scritto niente quest’inverno. Non ho parole. Il punto esclamativo è impotente. Occorre un nuovo alfabeto: segno di torpore, segno di paura inconscia animalesca, segno di dolore. Segni di odio e di disperazione. E un segno di inflessibilità. I miei amici di Kyiv e Orlando, di Almaty e Monaco, di Lviv e Tbilisi, di Tel Aviv e Haifa mi chiedono ogni giorno come viviamo qui. Il diario, che ho iniziato a scrivere con i primi spari nel febbraio del 2022, non si scriverà da solo, ed è ora che io parli dell’inverno passato di Kharkiv. L’inverno del 2023/24 a Kharkiv significa bombardamenti quasi quotidiani della città. Sirene, esplosioni, incendi, distruzioni e perdite. Telefoni che vanno in incandescenza a causa di videochat.

…Come state? Normale. Voi? Anche noi.

…Come state? Nel corridoio. Sapete dove è arrivato [il missile]? Eh, no. Da qualche parte vicino.

… Come state? Il cane sta impazzendo.

… Come state? Nel centro della città è un inferno. Il cielo è rosso, interi quartieri sono in fiamme, le persone vengono evacuate.

La mia figlioccia a Varsavia vede in televisione, in un servizio di Euronews, i suoi nonni che corrono attraverso il cortile in fiamme dopo un’esplosione in via Naukova. Sei esplosioni di fila. Nel centro della città.

Quartieri residenziali.

Persone sotto le macerie.

Molti morti, tra di loro anche bambini.

Il mio stato in questi giorni è simile allo stordimento. Le notizie fanno venire la nausea. Il dolore dei disastrati abitanti di Kharkiv è sospeso nell’aria ansiosa della città come un’onda inestinguibile, la nota infinita e terrificante del requiem.

Ogni casa e ogni cittadino è un potenziale bersaglio dell’infernale roulette russa. I miei amici matematici mi assicurano che “non uccideranno tutti, semplicemente basandosi su statistiche probabilistiche”. Non è granché come aiuto. Non ho studiato bene la statistica. Le amiche consigliano: non dormire in pigiama, dormire con una tuta delle forze speciali (barrato) pantaloni e qualcosa con le maniche lunghe, tenere gli occhiali e il passaporto sotto il cuscino. Solo i blogger pigri non hanno scritto quanto sia sconveniente la sirena se per qualche motivo ti ritrovi senza mutande in questi momenti.

Molto è stato scritto anche sui valori e sulle rivalutazioni. La cosa più inutile a Kharkiv oggi è la villa di proprietà col parco stile reggia reale. La cosa più necessaria è un comodo zaino-organizer per documenti e lavoro online.

Recentemente mi hanno chiamato e mi hanno invitato a una conferenza. Quando quando? – lo chiedo di nuovo. Nel mese di settembre? Suona quasi come “tra quindici anni”. No. Non pianifichiamo così a lunga scadenza. L’orizzonte della nostra prospettiva è non va oltre a tre giorni. Ma qui facciamo una festa ogni giorno. Anzi, due volte al giorno. La sera e la mattina, celebriamo il fatto di essere vivi.

Ci sono molte persone e macchine in città e mi do alla gioia per ogni Tesla parcheggiata come se fosse mia. Certo, molti se ne sono andati, ma l’anno scorso molti sono tornati, credendo nell’illusione estiva di una vita apparentemente normale. Le donne di Kharkiv sono tornate a casa dal Portogallo e dall’Irlanda, hanno portato i figli dai papà, hanno lavato le finestre degli appartamenti polverosi abbandonati nel caos dell’evacuazione. Hanno pulito le vetrine sulle strade e appeso cartelli con la scritta “siamo aperti”. E hanno iniziato a vivere e lavorare qui. Nonostante.

L’evacuazione e l’emigrazione non sono una bancarella di sigarette. Non puoi correre qua e là. “Là esistevamo, qui invece viviamo” – sento la stessa formulazione da persone diverse.

Sono i meccanismi di difesa mentale che si mettono in moto. Ciò che accade nella realtà è così simile a un incubo o alle riprese di un’apocalisse fantastica che negli intervalli di silenzio, quando non ci sono bombardamenti e sirene, la coscienza si rifiuta di considerare il pericolo come realtà. La coscienza coordina i compiti operativi, pianifica la giornata, gode del cielo al tramonto, una buona idea, una bella battuta o un piacevole incontro. Non esistono orrore e paura continui: questa è la conclusione tratta dagli abitanti di Kharkiv. Sono tutti come uno: pazienti affetti da PTSD, vittime di un folle esperimento psicologico e irriducibili menefreghisti-fatalisti.

Il ristorantino, distrutto alla fine di dicembre quando​ è stato colpito ​l’hotel, è di nuovo aperto e ci si mangia ancora meglio. I bar della città sono pieni di gente. Davanti a una tazza di caffè, colgo frammenti casuali di conversazioni, come un ricevitore capta le onde nell’etere. Di cosa pensi che stiano parlando queste persone? Due ragazze ben curate, sulla trentina, discutono su dove trovare una scuola evolutiva per bambini di tre anni, con balli, inglese e un rifugio. A un altro tavolo, un’imprenditrice sta discutendo con un commercialista l’apertura di aziende. Amici dei miei amici aprono una pasticceria dietro l’angolo.

Di sera sei sconvolto.

Ma non si può piagnucolare e lamentarsi, né col marito, né con un’amica, né su Facebook. Nel momento in cui le cose si mettono davvero male, uno dei tuoi amici ti scrive immancabilmente: come state? Ci incontriamo e ci ricarichiamo a vicenda. Come i power bank dalla rete elettrica. Una corrente di speranza circola nei circuiti elettrici delle nostre comunicazioni, contrariamente a tutte le leggi di conservazione dell’energia.

E la mattina ti passa.

Guido attraverso la città passando davanti a finestre inchiodate e facciate distrutte, al suono di una musica filtrata, un suono vuoto e senz’anima, senza additivi di ricordi o emozioni.

È tarda sera, un’ora prima del coprifuoco, Sumska [via centrale di Kharkiv]. Mi fermo e guardo i ragazzi. Davanti al Teatro dell’Opera, nello stesso posto dove lo facevano, circa trent’anni fa, altri adolescenti – i loro padri – questi ragazzi stanno facendo skateboard freestyle. Un’ora prima del coprifuoco, nell’inverno del 2024.

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Ieri, il 3 marzo 2024, un drone Shahed russo ha colpito il condominio da dove i miei genitori partirono per l’emigrazione forzata esattamente due anni or sono, il loro appartamento è stato distrutto. Un paio di giorni prima mi avevano detto che volevano tornare a casa a Kharkiv…

Tutte le foto sono dell’autrice