11 maggio 2022

Emigrazione

Per due mesi non ho potuto iniziare a scrivere della mia emigrazione. Non avevo parole.

È facile scrivere dell’amore. Non viene male quando si scrive dell’odio. È difficile scrivere del vuoto. È particolarmente difficile scrivere del vuoto senza parole.

Le parole russe sono esplose in me, le loro radici sono state bruciate. Le frasi non crescono più su questa terra; è sterile come la terra bruciata nelle battaglie vicino a Izyum.

Veniamo dall’Ucraina.

Kharkiv- Foto di Artem_Apukhtin da Pixabay

Liliana è di Kharkiv, ha ottantaquattro anni. Liliana e sua figlia erano fuggite a Dortmund quando la piccola Pyatykhatky è stata bombardata dall’aviazione. Insieme viaggiavamo in treno, dodici persone in uno scompartimento. Non abbiamo bevuto per un intero giorno pur di non andare in bagno. Per tutto il viaggio lei ha tenuto tra le braccia oggetti altrui e dei figli di qualcuno. Liliana è quasi svenuta per il caldo. Ricorda l’occupazione tedesca e lei a sei anni, in un villaggio nei pressi di Kharkiv: «I tedeschi sono vissuti nella nostra casa per due anni. E noi vivevamo in una stalla. I tedeschi allora non offendevano la gente del posto. Due grandi guerre hanno segnato la mia vita. Ora mi sto salvando dai russi presso i tedeschi. Da non credere. È strano il mio destino, non è vero?». Evgenia ha quattro figli. Dopo l’occupazione di Kherson la sua famiglia è stata rilasciata dai russi. Hanno camminato per i campi, sotto la pioggia fredda, nel fango, con i bambini nei passeggini e vestiti rinchiusi in balle fissate sul telaio della bicicletta… La mamma di Roman Anatolyevich lasciò la città capoluogo di una provincia occupata sull’ultimo autobus di evacuazione; il giorno dopo i russi impedirono di lasciare la città. Scappò senza portarsi via niente. Senza passato e senza futuro. Si sostenne con stoicismo durante il viaggio e trovandosi in Europa per la prima volta nella sua vita, stando alla stazione ferroviaria di Varsavia, pianse: “Che cos’ha questo posto di meglio? Ditemi, che cosa ha di meglio?”

A Dortmund siamo alcune migliaia. Giovani madri con bambini. Coppie adulte. Studentesse. Famiglie numerose. Anziani. Da est, da sud, da Kiev, Kharkiv, Odessa, da ogni parte.

Con piccoli zaini sulle spalle andiamo alla mensa, al bagno e al servizio sociale. Lo zaino è un’uniforme indossata da un rifugiato ucraino 24 ore su 24.

Siamo migranti.

Qualche settimana fa stavo comprando un inutile Ferragamo in una boutique molto lontana. Qualche giorno fa avevo una famiglia, una casa, un lavoro, un’impresa, progetti e sogni.

Oggi io e la mia cagnolina Bussya viviamo in un ostello.

Bussya è una clandestina. Le è vietato passare attraverso la fessura della porta e correre lungo il corridoio e, soprattutto, le è vietato abbaiare. Gli addetti alle pulizie fingono che sia la mia ciotola del cibo posata sul pavimento di una minuscola stanza singola in un ostello nel centro di Dortmund, in Germania.

Il mio amico tedesco Dmitry ci incontra a Dortmund, si prende cura di noi, ci sistema, ci fa da interprete, sistema i documenti, ci offre qualsiasi aiuto.

“Dima, devo confessarti una cosa,” decido di parlare.

“Non mi spaventare. Hai un figlio segreto? Cadavere nel bagagliaio? Che cosa?” scherza Dima.

“Ho un cane, uno Yorkie, qui sotto la falda della giacca, e non so se sto infrangendo la legge tedesca portandolo in albergo”.

Dima socchiude gli occhi e non dice nulla. Non è facile per lui, un rispettabile tedesco da molti anni, approvare le violazioni delle regole. La disapprovazione sarebbe ancora più difficile per lui.

Sette giorni di scantinato e otto giorni di viaggio sono alle spalle. La stanza viene pagata per diversi giorni in anticipo. Il cibo viene preparato appositamente per i rifugiati provenienti dall’Ucraina. È abbastanza accogliente qui. Non ho bisogno di molto. Recuperare il sonno e perché Bussya non abbai. E notizie.

Questo è tutto.

Dopo aver dormito, inizio a contare. Conto su una calcolatrice: quanti giorni potrei stare sdraiata sul letto in questo ostello, tenuto conto del contenuto del mio zaino. Dai numeri risulta che le garanzie del mio futuro sono, purtroppo, prevedibili. Decido di continuare a rimanere sdraiata fino all’ultimo centesimo. Poi si vedrà.

Sono tornata al punto di partenza: senza casa, senza laurea, senza professione, senza tedesco, senza proprietà. Vivo in una stanzetta con un lettino e una doccia, e una ciotola per cani sul pavimento.

Non ho più trenta e nemmeno quarant’anni. La mia età non è molto adatta per iniziare un nuovo percorso. Tutti i punti accumulati durante la tua vita, tutti i punti segnati sono stati bruciati, la vita è stata azzerata. Sono tornata al punto di partenza, come una marca in un gioco da tavolo. È andata così, i dadi sono stati lanciati così.

Mio marito e il figlio sono rimasti in Ucraina, tenuti in ostaggio dagli invasori terroristi. Guardo le notizie, leggo le notizie, discuto e ascolto le notizie. Notizie H24 x 7. E non mi bastano.

Resterò sdraiata.

Non devo andare al lavoro, non devo cambiarmi. Non ho bisogno di un calendario e di un’agenda. Non ho bisogno di nulla. Bussya ha ancora del cibo. Internet ed elettricità ci sono. Rimanere stesa e leggere le notizie.

Sono con me i miei genitori, hanno settant’anni. Il mio sguardo li sfiora casualmente, un po’ di lato, da lontano: due persone confuse, estranee qui, e vedo le loro improvvisamente vecchie schiene.

 

18 dicembre 2022

Emigranti

Un tempo la Ruhr  riforniva l’Europa di carbone e metalli e la Germania di denaro. Ciò che resta dell’età d’oro industriale sono musei di miniere abbandonate, giganteschi scheletri di ferro di fabbriche integrate nel paesaggio, cave trasformate in laghi con tanto di lungolaghi. Oltre ai metri quadrati, relativamente economici, di densa edilizia residenziale, spopolatesi nel XX secolo, dopo il declino dell’energetica del carbone.

Il Land della Renania Settentrionale-Vestfalia è rettangolare, pragmatico. Non è quella Germania di pan di zenzero.

Ora vivo a Dortmund, in una casa nata nel 1914, in un appartamento con le finestre che danno su una strada deserta e anonima e sul cortile di una scuola. La cucina è nell’ingresso, e non c’è il balcone, ma c’è una dispensa fredda con ragnatele. Cento anni fa, nel mio appartamento viveva qualche proletario, un minatore o un metallurgo, forse un marxista. La Germania esportò il marxismo a est e per ogni evenienza ci costruì il socialismo. Pieni di sensi di colpa per le bricconate dei nazisti, i tedeschi hanno vissuto per mezzo secolo con l’idea di redenzione e hanno aperto le loro città ai profughi di varie guerre, provenienti da vari continenti. Nella primavera del ventidue, in Germania si insediarono migliaia di ucraini. Dortmund è tanto multiculturale. Il ragno nel mio armadio ha più motivi per considerare la città sua di molti dei suoi abitanti. I dieci mesi della mia vita a Dortmund assomigliano alla letargia. La vita con il pilota automatico inserito. Modalità standby. Vita in standby.

La mattina corro in un piccolo parco nell’isolato vicino. Saluto alcune persone locali: gli spazzini curdi, il guardiaparco tagico e la polacca Barbara. Barbara gestisce un mini-asilo privato qui, nelle vicinanze. Rigorosamente secondo l’orario, porta nella radura un passeggino basso a otto posti con bambini di tutti i colori e li versa nell’erba come piselli. Il più scuro di tutti si chiama Mamadou. Arriva correndo verso di me e mi fissa con gli occhi bianchi.

Ciao piccolo. Sono la stessa mamadou, qui come te. Siamo entrambi qui mamadou.

L’emigrazione forzata è come una caduta prolungata. Emotiva, finanziaria, sociale. La tua classifica sprofonda fino a quella di un bambino di un anno. “Io ve-ni-re da U-cra-i-na, da cit-tà di Khar-kiv”, pronunci sillaba per sillaba. La paziente insegnante di tedesco ti motiva con energia esagerata: sehr sehr gut.

Spesso sembra che tutto questo non stia succedendo a me. Che si stia girando un film.

Sembra che non sia io a correre per il parco mattutino, ma guardo dell’esterno mentre corro.

Corso del tedesco A1. L’argomento della lezione: professioni. Nel gruppo ci sono 20 ucraine.

L’insegnante, la tedesca Margaret, spiega come si dice in tedesco “casalinga”, “donna delle pulizie” e “aiuto domestico”.

“Was ist dein Beruf?” chiede lei.

“Avvocato, dentista, manicurista, architetto, ingegnere informatico, infermiera, economista, coreografa”, suonano le risposte.

Le donne ucraine con bambini sono ovunque in città. La moderna Madonna ucraina in Europa è una donna single, istruita e ben curata, che corre dall’asilo ai corsi di tedesco e ritorno.

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Sole.

Parcheggio all’angolo della Flurstraße.

Sul marciapiede, vicino a cassette di verdura poste a più piani, seduti sulle sedie, in stile campagnolo, parlano i turchi, i proprietari della bottega. Compro le verdure e metto le borse nel bagagliaio.

“Are you from Ukraine? I’m from Serbia”.

Un uomo dai capelli grigi e dai radi denti gialli si presenta come il titolare di una piccola azienda e mi porge un biglietto da visita. È in Germania da trent’anni. Ha bisogno di un autista con una macchina e di una segretaria. Mi offrono un lavoro. Rispondo cortesemente che ci penserò [ricordiamo al lettore che l’autore di queste righe ha il titolo di dottore di scienze mediche e professore]

La stragrande maggioranza degli ucraini che conosco, buttati sulla costa europea dall’onda di evacuazione del 2022, sogna di tornare a casa in primavera.

Perché?

Ci penso molto.

Prima della guerra la maggior parte di noi percepiva il tema dell’emigrazione in modo positivo. Mandare i figli a studiare all’estero? Era considerata una grande fortuna. Trasferirsi in Europa? Per sempre o temporaneamente? Okay, forte. Trovare un lavoro? Ancora più bello. Il concetto della piccola patria è stato superato da tempo, ora tutti si trasferiscono da qualche parte. Nella storia del ventesimo secolo ci sono stati diversi potenti flussi migratori, migrazioni di popoli dall’Ucraina nell’Eurasia e nel Nord America. Oggi il mondo è universale e vario. Sembrerebbe, che differenza fa dove vivere? L’inglese ti salva ovunque nel mondo. I supermercati hanno più o meno gli stessi prodotti. Internet, comunicazioni, carta bancaria, lavoro online. La Germania, ad esempio, è bella e ricca, e il clima qui è un po’ meglio.

Perché allora vogliamo tornare così tanto?

Interrogo ai miei connazionali in Germania.

– voglio sentire la mia lingua madre intorno a me

– voglio andare a pesca

– voglio il nostro pane e il nostro lardo [prodotto tipico ucraino]

– voglio tornare al mio lavoro

– voglio andare a casa mia

– voglio vedere i miei amici

– voglio pagare le tasse in Ucraina

No. È tutto sbagliato.

Queste formulazioni non trasmettono né angoscia né dolore. Né il complesso di colpa di chi si è salvato, né l’essenza stessa del patriottismo dell’ultima ondata dell’emigrazione ucraina. Questa essenza è difficile da esprimere in parole.

L’esercito delle parole si è indebolito. Le parole hanno smesso di sparare con cartucce a pallettone, e non viene voglia di tirare con quelle a salve. Ricordo che all’inizio della guerra noi sparavamo furiosamente con parolacce. Allora funzionava, portava sollievo, sensazione di equivalenza alla catastrofe in corso. Oggi gli equivalenti lessicali dell’orrore di quanto sta accadendo sono finiti. Le parole sono inefficaci e le emozioni hanno la carica a zero.

Provo a formulare sinteticamente l’idea.

Il sentimento principale di questo anno nel mondo è l’ingiustizia. Un sentimento, la cui natura biologica è sconosciuta, è proprio solo dell’uomo. Sconosciuto alla scienza, inesplorato e indefinibile regolo interno del bene e del male. Il sesto senso e la quarta dimensione.

Il Paese è debole e percosso, calunniato e violentato. La comprensione di enorme ingiustizia muove milioni di persone su entrambi i lati del confine.

In primavera, i rifugiati ucraini si metteranno in fila in un gigantesco ingorgo di ritorno al confine e porteranno l’Europa in Ucraina.

Unione Europea, grazie, ma vogliono tornare.

Per regalare all’Europa e a loro stessi un’Ucraina pacifica e prospera, vogliono tornare.

Tutte le foto sono dell’autrice

N.d.R.: per un approfondimento dei temi trattati dall’autrice, della sua vita e delle sue esperienze si rimanda a un suo articolo pubblicato un anno fa su questo sito:

Cronache di una evacuazione: la Propaganda