Foto di Hans Braxmeier da Pixabay

Intellettuale: chi è costui? Domanda legittima dal momento che, mentre nel corso del Novecento e all’inizio del ventunesimo secolo, sulla figura e sul ruolo dell’intellettuale si è intensamente dibattuto sulle pagine culturali di quotidiani e riviste, oggi questo tipo di problematica sembra accantonato. Effetto dello sciatto relativismo e dell’individualismo che condizionano la post-modernità e che tendono a confinare nel privato perfino le questioni socio-culturali essenziali?

Checché ne sia, qualche riflessione sull’argomento può essere utile anche ai nostri giorni.

Sappiamo che storicamente, ma soprattutto dal Secolo dei Lumi in poi, il termine indica chi fa professionalmente uso del proprio intelletto. Frasi ad effetto, come “proletarizzazione del lavoro intellettuale”, hanno avuto successo principalmente dagli anni ’60 del secolo scorso, ma non hanno alcun senso, se non quello attribuito dall’ideologia allora dominante: il marxismo. L’intellettuale, sottolineiamo, non ha mai azionato una macchina, né usato un cacciavite, se non a casa propria, per cui il termine, di fatto, designa anche lontananza e rifiuto del lavoro manuale. Di recente, comunque, gli intellettuali sono stati costretti a sollevare, oltre che ad utilizzare, il computer portatile sotto l’influsso obbligante e obbligatorio della tecnologia avanzata. La cosa più pesante mai alzata, a suo tempo, da Jean-Paul Sartre, intellettuale per eccellenza engagé, assicurano i suoi amici che al bar gli riconoscevano una sorta di primogenitura come pontifex maximus, è stato il bicchiere di alcool. Sempre pieno, però… – assicura ironicamente Vittorio Messori.

In realtà, la figura dell’intellettuale è stata, da sempre, segnata dalla complessità e, talvolta, dalla contraddittorietà.

Foto di Couleur da Pixabay

Nell’antichità classica greco-romana, l’intellettuale si configurava come vir o άνθρωπος (ánthropos), principalmente come colui nella cui mente coincideva il bello e il bene – kalos kai agathos. Rappresentava dunque l’uomo libero o il cittadino pleno iure che coltivava le artes liberales, si occupava e discuteva di politica nel forum o nell’agorà, frequentava il gymnasium per far ginnastica e, in caso di guerra, si univa ai combattenti, cercando però di evitare la prima linea.

In ogni caso, non esercitava i lavori manuali per il semplice motivo che non aveva bisogno di lavorare per vivere. Nell’antichità classica, infatti, si poneva come semplice fruitore dei frutti dell’economia, basata sul lavoro degli schiavi, degli iloti.

Una variante della figura classica dell’intellettuale venne introdotta tuttavia a Roma con i liberti, cioè con gli schiavi liberati ed emancipati, i quali spesso erano intellettuali influenti, sempre vicini ai loro ex-padroni, ai quali rimanevano devoti. Intellettuali potevano essere a Roma anche gli immigrati colti, provenienti, per esempio, dalla Grecia. Una volta nella capitale dell’Impero, vivevano dei frutti della loro cultura. Con appellativo moderatamente dispregiativo, venivano indicati come Graeculi.

Durante il Medioevo, l’intellettuale venne a coincidere con il clericus, generalmente amanuense, scriba, traduttore e interprete di testi classici o delle Sacre Scritture, studioso, erudito. In genere monaco o comunque uomo di chiesa.

Photo by Alex Block on Unsplash

Uomo di studi e di cultura, letterato, il clericus è stato ripreso nel Novecento con allusione al volume di Julien Benda La trahison des clercs (1927), in cui si avanzano esplicite accuse agli intellettuali, tecnici della parola trasformatisi in sofisti, che hanno rinunciato al loro ruolo di guida civile e morale del popolo per sottomettersi alle esigenze del potere a meri egoistici fini di sicurezza materiale. Si sono così assicurati guadagni corposi, sicuri, senza sudore; soprattutto, il più delle volte, senza reale merito personale e, non di rado, al punto di sacrificare la propria dignità. Il richiamo della greppia li ha travolti. L’intellettuale cosiddetto organico di marxiana o, se si vuole, di gramsciana memoria rientra nel novero ed ha, in pieno 2021, numerosi seguaci anche se di differente, varia e spesso opposta estrazione politica. Rivedibile, mutabile, flessibile, comunque, secondo la direzione del vento e le esigenze del mercato.

Con la fine del Medioevo e con l’inizio del Rinascimento, il clericus, l’intellettuale, abbandonò la malsicura Chiesa, intellettualmente, spiritualmente e moralmente esigente, per passare al servizio del principe-mecenate. Con il trascorrere dei secoli, aderendo con prontezza ai segni dei tempi, passò ora al servizio dei principati e dei potentati economici, ora a quello delle grandi Aziende.

L’intellettuale sembrò mosso da un sussulto di autonomia con l’avvento del secolo dei Lumi e con l’incipiente società industriale.

David Hume (1711-1776) Photo by K. Mitch Hodge on Unsplash

Era il momento storico in cui si affermava il libero mercato e l’intellettuale si poneva come libero professionista che producevani beni di consumo culturale – libri – da cui traeva, attraverso i diritti d’autore, i mezzi di sussistenza.

L’avventura dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert è probabilmente stata il primo esempio storico di perfetto connubio tra impresa commerciale e culturale. Nell’epoca del capitalismo maturo, in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, allorché si affermarono in tutti i settori della vita sociale i principi della divisione del lavoro ed entrò in gioco la specializzazione, la figura dell’intellettuale come specialista delle idee generali, personaggio onni-dimensionale, entrò in crisi. Ecco perché, nel recente passato, si è parlato di eclissi dell’intellettuale. Si trattò, tuttavia di eclissi solo apparente, come intuì con tempestività il sociologo Franco Ferrarotti. Sì, perché l’intellettuale resta oggi, anche quando di lui non si parla, sulla scena sociale e politica come il tecnico della comunicazione, orale, scritta o stampata e come il “fine dicitore” che riporta alla memoria la definizione che diede Cicerone del vir probus dicendi peritus. Tuttavia, la crescente specializzazione nel campo del lavoro e la pragmatizzazione del pensiero, tipica di una società panlavorista, iperproduttiva ed iperconsumista, nemica dell’otium creativo, determinano disagio spirituale, cioè quello che Hegel chiamava “anima infelice” dell’intellettuale, che tende ad estraniarsi dalla società.

Egli sente che viene meno la caratteristica del suo ceto come corpo separato, privilegiato, sacerdotale, destinato a guidare le masse, portando ad esse dal di fuori quella “coscienza di classe”, cioè quella autonoma consapevolezza storica che le masse non sarebbero capaci da sole di realizzare. Siamo pervenuti, pertanto, alla concezione leninista dell’intellettuale come avanguardia organizzata e cosciente della classe operaia, da cui prende le mosse l’intellettuale organico della già citata concezione gramsciana, per cui l’intellettuale è uno specialista politico, al servizio, ma in posizione di guida, del movimento operaio.

Photo by Gabriella Clare Marino on Unsplash

Come si vede, in passato, ha funzionato a meraviglia la foglia di fico che copre le pudende. Oggi, non è più possibile, perché questo tipo di intellettuale non può più nascondere ad alcuno il suo ruolo di servo dell’ideologia, del partito, del padrone, del sistema, di cui si serve per sbarcare – non di rado egregiamente – il lunario. Ecco perché preferisce che di lui si parli sempre meno.  Siamo ormai lontanissimi dal ruolo originario dell’intellettuale come coscienza critica della società, infaticabile scavalcatore di orizzonti, appassionato mai sazio di sapere, di conoscenza, di verità, di assoluto. Per avere piena consapevolezza della lontananza dell’intellettuale da questo ideale, basta passare in rassegna alla televisione i volti e i comportamenti dei protagonisti dei dibattiti politici e culturali alla Rai, alla Sette, a Mediaset ecc. Salve sempre, comunque, le debite eccezioni, che, per fortuna, esistono e tracciano il cammino per futuri positivi sviluppi. L’infuriare del Covid-19 ha, in questo caso, determinato, suo malgrado, un favorevole mutamento di rotta per gli intellettuali che intendono ritrovare la propria autenticità. Non è una frase fatta, ma il giusto riconoscimento agli inquieti ricercatori, umanamente impegnati nei vasti campi della conoscenza e nella consapevolezza dei problemi della società.

L’intellettuale, se uomo di pensiero, non potrebbe mai, infatti, accontentarsi della sia pur migliore e più avanzata realtà sociale ed umana, in quanto il suo sguardo non può che essere sempre proteso in avanti, verso il senso dell’esistenza e delle cose. Perché no, verso il mistero.

Il vero intellettuale vive la cultura, ma non vive di cultura, vive la politica ma non vive di politica, vive la fede ma non vive di fede. Se necessario, accetta di morire per la fede, per la cultura, per la politica.

Purtroppo, nelle più diverse situazioni politiche, ideologiche, istituzionali, tranne le poche accennate eccezioni votate al martirio, l’intellettuale ha tradito il suo ruolo di coscienza critica ed ha ricercato posizioni di privilegio, facendosi arruolare senza troppe difficoltà, anzi, spesso, caldeggiando l’arruolamento.

Foto di 139904 da Pixabay

L’opportunismo, proprio degli squallidi politicanti e degli pseudointellettuali, indifferenti se non apertamente nemici del bene comune – unico fine della politica e dell’impegno culturale – è più comodo dell’indipendenza di giudizio, della libertà e della ricerca sapienziale.

L’intellettuale ha tradito il suo ruolo di cacciatore di verità, pur sempre consapevole della difficoltà di raggiungerla e possederla, ma infaticabilmente impegnato, novello Perceval alla quête del Graal, nella sua ricerca. Oggi, si è macchiato di un ancor più grave tradimento. Negando l’esistenza della verità, ha aperto – lo ribadiamo per sottolinearne la gravità – la via al relativismo etico per cui tutte le opinioni, anche le più insensate e criminali, finiscono per equivalersi. Ha così spianato il cammino alla disintegrazione della società occidentale ed al nichilismo, moltiplicando anche le occasioni di contagio nel mondo intero, grazie alla globalizzazione. Il che dà la misura della grandezza e della nobiltà del vero intellettuale, che illumina gli ardui sentieri dell’umano.                                                  P.S. – Si chiarisce che la prima parte del presente testo è frutto ovvio di letture di opere di filosofi, sociologi e ricercatori di varie estrazioni socio-culturali. La seconda parte vorrebbe essere un contributo personale al dibattito sulla figura dell’intellettuale, proiettata nel nostro tempo.

Foto di apertura di Mystic Art Design da Pixabay