Il 25 maggio 2021 il presidente Mattarella ha inaugurato il Campus dell’Università Cattolica a Cremona, una delle città più colpite dalla pandemia. Ha sottolineato il valore simbolico della ripartenza proprio da un luogo del sapere e della ricerca che ospiterà la “next generation; un luogo da cui si riavvia la rinascita culturale e civile del Paese”. Le parole del presidente della Repubblica sono un importante ulteriore stimolo a riflettere, in una prospettiva europea, sul ruolo che l’Università può svolgere nel processo di rinnovamento del Paese definito dal PNRR.

Il presidente Mattarella – Grafica di  Giampiero Ruggieri da Pixabay

Quello di Cremona è il quarto campus progettato e realizzato dalla Lamberto Rossi Associati/Lamberto Rossi e Marco Tarabella, dopo i campus dell’Università di Bologna a Forlì, dell’Università del Piemonte Orientale a Novara (concorsi internazionali vinti), il Campus della Musica della Fondazione Stauffer, sempre a Cremona, e questa esperienza ultraventennale mi da lo spunto per sviluppare alcuni temi centrali legati al rilancio delle strutture formative del nostro Paese.

Ho articolato questo contributo in due parti: nella prima cercherò di dimostrare come la realizzazione di reti di campus non è solo indifferibile ma è la pre-condizione perché il PNRR possa trovare piena attuazione. Nella seconda parte, affronterò il tema della grande occasione di rigenerazione urbana che questa prospettiva offre alle “100” città italiane e alle aree metropolitane attraverso il recupero dell’enorme patrimonio di attrezzature ottocentesche, nella gran parte abbandonate e di proprietà pubblica.

 Cinque Riflessioni

Una prima riflessione deriva dall’eterno gap dell’Italia in termini di numero di laureati, (soprattutto nelle discipline tecnologiche) oltretutto, con profonde differenze tra aree del Paese (in diverse zone il passaggio diretto da scuola superiore a università riguarda meno della metà dei ragazzi).

Nella strategia Europa 2020, l’UE invitava i paesi a promuovere il conseguimento di un livello di istruzione elevato per tutti, fissando un obiettivo esplicito: 40% di laureati tra i 30 e i 34 anni da raggiungere entro il 2020. Un target che a livello comunitario è stato già raggiunto, con un anno di anticipo. Secondo i dati 2019 infatti, il 41,6% dei residenti tra i 30 e i 34 anni in Ue ha una laurea. Una media che però nasconde ampi divari tra i paesi membri. Con un misero 27,6%, l’Italia è penultima in classifica, seguita solo dalla Romania, a quota 25,8%. Secondo l’ultimo rapporto Istat, infatti, in Italia la quota di popolazione con titolo di studio universitario continua a essere estremamente bassa: il 19,6% contro il 33,2% dell’Ue. La prima riflessione dunque indica che c’è una estrema urgenza di realizzare nuovi campus e di rendere più attraenti quelli esistenti.

 

La biblioteca di Stoccarda – Foto di Gabriel Sollmann da Unsplash

La seconda conseguente riflessione riguarda la durata delle opere: nel nostro caso quelli pubblici – Novara e Forlì – realizzati in 3 fasi, sono durati, tra progettazione e realizzazione, circa 15 anni a fronte di quelli privati completati in circa 4 anni (attraverso Accordi di Programma pubblico-privato tra enti territoriali e Fondazioni private). Questa seconda riflessione ribadisce che dobbiamo semplificare le procedure degli interventi pubblici che oggi richiedono tempi che non possiamo più permetterci, e nel contempo sviluppare gli Accordi di Programma.

Una terza riflessione riguarda invece il profondo cambiamento che la realizzazione di nuovi campus induce nelle città avviando un processo accelerato di ringiovanimento dell’intero corpo sociale. Gli insediamenti universitari contrastano l’invecchiamento della popolazione, favoriscono la innovazione digitale, il trasferimento tecnologico e la nascita di nuove imprese, e contrastano la cosiddetta “fuga di cervelli” (che peraltro non ha solo aspetti negativi in quanto sta contribuendo a creare una classe dirigente italiana di livello internazionale che questo paese non ha mai avuto).

Una quarta riflessione riguarda il modello insediativo a livello territoriale che si configura come un multicampus ovvero una rete interconnessa di campus in una o più città collegate e con un’offerta formativa diversificata, legata al territorio senza inutili duplicazioni di corsi.

Una quinta riflessione concerne la collocazione urbana: quella più favorevole e che si coniuga con lo sviluppo della città è quella che vede il sistema universitario proporsi come elemento di rigenerazione urbana – di “rammendo” direbbe Renzo Piano – tra centro storico e città contemporanea.

Il Modello Insediativo

In “Pianificazione e disegno delle Università” (Edizioni Universitarie Italiane, 1968 Venezia) Giancarlo De Carlo – uno dei più grandi progettisti di università: Urbino, Dublino, Pavia, Siena, Catania – affrontava il tema dei modelli insediativi universitari partendo da quelli tradizionali sino alle evoluzioni più moderne. Si proponeva di individuare una metodologia di pianificazione che partisse dalla profonda trasformazione avvenuta nei sistemi universitari tra gli anni ‘50 e ’60 del Novecento quando le Università da attrezzature elitarie sono diventate strutture “di massa”, democraticamente aperte a un pubblico sempre più ampio, interclassista e multiculturale.

De Carlo partiva dall’analisi dei due modelli classici: il “campus” di matrice anglosassone e l’“Università-Città”, di tradizione mitteleuropea e italiana.

Il COAF smart center, campus innovativo situato a Lori, in Armenia – Photo by Nerses Khachatryan on Unsplash

La definizione di Campus è possibile solo in relazione a una particolare tradizione storica che caratterizza più i paesi anglosassoni che i paesi centroeuropei e latini». In questo senso, De Carlo sottolineava come questo primo modello si basi sulla idea di unitarietà e di autonomia implicite nella radice etimologica del termine latino.

“La concezione pedagogica sottesa all’idea di Campus è dunque basata sul principio della autosufficienza e del decentramento. Coerentemente con questo principio il Campus contiene non solo le strutture per la didattica e la ricerca, ma anche gli alloggi per gli studenti e i docenti, le attrezzature complementari per le attività culturali integrative, sportive, di svago, le attrezzature amministrative e talvolta persino commerciali, necessarie ad assicurare l’autosufficienza alla comunità.

Il modello di localizzazione è quello del decentramento, costantemente presente nella organizzazione territoriale anglosassone. Si potrebbe dire anzi che in questo senso, più che per altri tipi di attività, il modello del decentramento risulta corrispondente alle intenzioni sociologiche che lo determinano. Infatti, fin dalle sue origini, il Campus viene concepito decentrato per confermare le ragioni della sua autonomia e cioè per garantire, attraverso l’attuazione più rigorosa del suo isolamento, l’obiettivo di preparare quadri dirigenti incontaminati, tratti dalle classi privilegiate della società. Il decentramento e l’autonomia insieme, assicurano una condizione di omogeneità, di distacco e di prestigio, perfettamente commisurata alla funzione del dirigere; allo stesso tempo assicurano il rigore, la disciplina e la dedizione necessarie alla formazione di quadri capaci e omogeneizzati. I primi campus furono fondati in Inghilterra nel XII secolo a Oxford e a Cambridge (…). Ma il modello inglese trovò la sua più genuina applicazione negli Stati Uniti dove i “dissenzienti” emigrati da Oxford e da Cambridge fondarono nuovi Campus, su una base più aperta verso la tolleranza ideologica e verso gli interessi scientifici e tecnologici, ma anche più rigorosa nell’applicazione del principio di isolamento e di autosufficienza”.

Ultimamente il modello del campus inteso appunto come insediamento completo di tutte le funzioni anche residenziali, capace di assicurare l’autosufficienza alla comunità, è in sensibile declino soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, innanzitutto in Inghilterra e negli USA.

La società della comunicazione, infatti, ha travolto queste forme di isolamento elitario e di specializzazione. Il modello permane valido per le piccole strutture di ricerca molto specializzata.

Il secondo modello è quello dell’UniversitàCittà, ovvero dei grandi complessi storici del XVI secolo, italiani e mitteleuropei, come

La  Minerva al centro della città universitaria della Sapienza Università di Roma – Foto di Sapienza Università di Roma

Bologna, Padova, Pavia oltre a Heidelberg, Gottingen, Sorbona.

In questi casi la città acquista il carattere precipuo di città-universitaria e il processo simbiotico scambievole che si stabilisce tende a modificare entrambi gli organismi.

De Carlo notava che anche questo modello rappresentava più o meno direttamente la trasposizione fisica di una volontà di una classe al potere che voleva assicurare alla formazione dei propri quadri un ambiente tipizzato e speciale.

Ma mentre il Campus è la rappresentazione fisica del puritanesimo pragmatico anglosassone che tende a considerare impura e pedagogicamente pericolosa la vitalità della città; nell’università urbana gioca in maniera opposta la cultura idealista centro-europea che considera proprio la città come l’espressione massima della propria cultura e come la registrazione fisica della propria storia e, quindi, la pone al centro del processo pedagogico come irrinunciabile elemento di conoscenza.

L’esigenza di incontaminazione persiste ma diviene interna al sistema e si esprime nella scelta localizzativa che privilegia abitualmente aree riservate, generalmente dense di presenze storiche.

Anche questo secondo modello è entrato in crisi sotto la pressione dell’università di massa che ha modificato – sbilanciandoli sino al punto di rottura – i rapporti di equilibrio tra la città e l’università. Per effetto di questa pressione costante è nato un sotto-modello che De Carlo definisce “disaggregato per facoltà” che però non è un modello in senso reale in quanto non nasce per scelta ma per trasformazione involontaria non pianificata. Questo sotto-modello ha il grande limite di generare una specializzazione per discipline che spesso divengono assolutamente impermeabili tra loro, dimostrandosi funzionali solo al consolidamento del potere accademico.

In ogni caso rispetto all’università-città, “il modello dell’università disaggregata per facoltà perde i vantaggi della concentrazione; rispetto al modello del Campus perde i vantaggi dell’unità e dell’autonomia ambientale. Si tratta quindi della soluzione peggiore e, purtroppo, della più frequente”.