Orizzonti poetici e umani. Strano destino quello di Mariannina Coffa, amata, spesso citata nel quotidiano ma poco studiata perfino nelle scuole. Figlia dell’avv. Salvatore e di Celestina Caruso, la poetessa nacque a Noto il 30 settembre 1841. Dotata di straordinaria sensibilità e delicatezza d’animo, mostrò, fin dalla più tenera età, una sorprendente predisposizione alla poesia, cui era sintonizzata per strutturazione congenita.

Mariannina Coffa

La dolce Nina, come veniva chiamata, giglio delicato, destinata all’amore e alla poesia, non tardò a restare vittima dei pregiudizi del tempo, incompresa e ingannata da genitori, parenti, amici e conoscenti, incapaci di comprendere il suo anelito alla piena realizzazione di sé percorrendo in libertà gli arcani sentieri dell’ars poetica. Fatta per gli spazi cosmici ma soffocata dai conformismi dell’epoca, fu spesso costretta a reprimere le istanze profonde del suo spirito. Nevrosi, depressione e angoscia divennero fatalmente, per conseguenza, compagne della sua breve ma intensa avventura poetica e umana.

Trascorse comunque serenamente i suoi primi anni, circondata dall’affetto dei suoi, sorpresi dalla sua precoce vocazione poetica e felici di sfruttare le sue innate doti a fini salottieri. Per quanto consapevoli delle elette virtù della figlioletta, i Coffa Caruso, appartenenti alla borghesia massonico-liberale, quasi mai furono all’altezza del compito di favorire la fioritura del suo genio poetico in un tempo e in un mondo pronti a reprimere ogni forma di emancipazione femminile. La rigida educazione ed il frigido clima moralistico segnarono la personalità di Nina, che, di indole mite e remissiva, interiorizzò i sentimenti di cieca obbedienza ai genitori.

Compiuti i dieci anni, fu iscritta al collegio Peratoner di Siracusa, ove apprese il “magistero dei versi” dal prof. Francesco Serra Caracciolo. Tornata a Noto, fu affidata, a partire dal 1852, alle amorevoli cure dell’umanista e poeta can. Corrado Sbano, suo precettore e poi consigliere, amico ed estimatore. «Non solo fu guida sapiente alla Coffa nel cammino difficoltoso dell’arte – ha affermato un suo appassionato ammiratore da me convenzionalmente indicato come Anonimo 1905 – ma anche nei momenti di più grave sconforto fu l’amico più caro che valse a confortarla, ed a cui ella aprì candidamente l’anima sua». Alcuni cultori delle opere della poetessa hanno invece parlato di chiusa ortodossia religiosa e di intransigenza purista da parte del sacerdote, che avrebbe influenzato più del dovuto le convinzioni cristiane di Mariannina. Il che equivarrebbe a considerare una persona di talento, geniale, quale ella fu, al pari di una fanciullona facilmente manipolabile. In realtà, nelle sventure da lei patite, l’intenso rapporto di amicizia con lo Sbano, ben noto per la sua attività letteraria, vicario generale della diocesi di Noto, fu per lei un’oasi nel deserto.

Aveva 14 anni quando fece l’incontro decisivo, nel bene e nel male, della sua vita. Per completare la sua formazione, i genitori le fecero impartire lezioni di piano da Ascenzio Mauceri, brillante venticinquenne, conterraneo ma reduce dal “continente”, il quale, grazie agli atteggiamenti romantici, fece subito colpo sulla creatura adolescente, già sbocciata alla poesia. Nei salotti netini, egli interpretava il ruolo dell’intellettuale liberale, aperto alla nascente unità d’Italia. Fu infatti segretario e referente di Matteo Raeli (Noto, 1812 – 1875), il futuro ministro di Grazia e Giustizia del Regno d’Italia nel Governo Lanza (1869 – 1873), redattore della Legge sulle Guarantigie.

Fresca di studi umanistici, imbevuta d’amor di patria, Mariannina subì il fascino di Ascenso (così sospirosamente lo chiamava), che, ai suoi occhi, appariva come il modello ideale del giovane, in cui cultura, amor di patria e bellezza fisica trovavano armonica sintesi. Fu amore a prima vista, ricambiato (i maligni in riferimento ad Ascenso sostengono per convenienza), e destinato, sembrava, al lieto fine. Tuttavia, l’ermetica chiusura dei Coffa a ogni prospettiva che non fosse quella di un matrimonio di convenienza e la certezza dell’assoluta soggezione della figlia indussero la

Ascenso Mauceri

diciottenne poetessa a contrarre matrimonio con il benestante ragusano Giorgio Morana, a lei ignoto fino alla cerimonia nella cattedrale di Siracusa. Era l’alba dell’8 aprile 1860, Pasqua di Resurrezione. Iniziò allora per lei un calvario che si protrasse per 18 anni fino alla sua immatura scomparsa. Trasferita a Ragusa, Mariannina, nata per la poesia e per l’amore, fu costretta a soffocare in buona misura le sue legittime aspirazioni. Scarsamente compresa dal marito, malversata da un suocero ignorante, rozzo e violento, che considerava la scuola una disgrazia da evitare alle ragazze, soffrì anche per il trasferimento a Ragusa, sinonimo per lei di esilio, lontana dai parenti, dagli amici e, soprattutto, da Ascenso. La propensione alla tristezza e i lutti familiari fecero il resto. Malgrado la salute cagionevole, sopportò cinque gravidanze e sopravvisse alla morte di due sue creature.

Dallo stato di prostrazione in cui fu precipitata dalla lunga serie di calamità avrebbe potuto trarla proprio il Mauceri, come dimostrano le “Lettere ad Ascenso”, inviategli dopo il matrimonio. Lontanissima da ogni suggestione adulterina, desiderava una parola di comprensione e di perdono per l’abbandono forzato, cui era stata costretta dai genitori. Le missive ad Ascenso, che, secondo Gino Raya, contengono «quanto basta per accrescere d’una voce il patrimonio del nostro Ottocento letterario», sono la pungente testimonianza di un amore superiore, che il Mauceri ebbe difficoltà a comprendere sia per la sua incapacità di perdonare sia perché ben presto iniziò una relazione con una popolana, fruttuosa al punto da mettere al mondo sette figli. Il distacco definitivo, da lui provocato con un breve scritto in cui evidenziava la sua siderale lontananza da lei, pose fine al carteggio il 5 aprile 1872. L’onore ferito non cadde nell’implorazione della pietà: «… siate ben certo che io vi ho scritto perché non me lo avete vietato. Ove ciò fosse avvenuto, io avrei preferito bruciarmi la mano, anziché indirizzarvi mie lettere».

La conclusione della corrispondenza con Ascenso, che così consumò la sua “vendetta”, segnò l’inizio della personale salita al Golgota di Mariannina. Le tribolate sofferenze morali divennero insostenibili dal 1875, allorché si manifestarono in lei i sintomi di un male incurabile – tumore all’utero – che la portò giovanissima alla tomba. Si rivolse allora al dott. Giuseppe Migneco, medico omeopata, seguace del magnetismo, per cui ella nutriva profonda ammirazione. Fu proprio il Migneco che la affidò al dott. Lucio Bonfanti, netino, suo allievo come omeopata. Il che la spinse a lasciare Ragusa e la famiglia e a trasferirsi a Noto, città natale, per poter fruire dell’assistenza quotidiana del medico. Lontana dal marito e dai figli, oggetto di maldicenze paesane, abbandonata e maledetta dai suoi stessi genitori, la dolce poetessa, vittima di sofferenze morali e fisiche insostenibili, ridotta in estrema povertà, si spense il 6 gennaio 1878 cristianamente, recitando le stupende ottave “A Maria Vergine Addolorata”, uno dei vertici della sua produzione poetica: «[…] dammi la gloria di morirti appresso/ e sacrarti morente il genio mio,/ pietosa ai voti d’uno spirto anelo,/ Madre, gli affetti miei rendimi in Cielo».

Nell’ultima sconvolgente lirica “A Filippo Santocanale” (24 novembre 1977), che oggi appare come un messaggio che ci arriva dall’al di là, si chiedeva: «Che mi giovò dei dolci carmi in seno/ versare il germe d’una idea novella,/ e sul detto immortal del Nazareno/ schiudere un’era più feconda e bella?».

Parafrasando il Vangelo (Matteo, 8 – 20), ennesima prova della sua fede cristiana, già testimoniata nelle citate ottave a “Maria Vergine Addolorata” e soprattutto nell’identificazione tra Dio e Amore, aggiungeva: «Fu ben triste la prova! E intendo ormai/ che al Figliol dell’Uomo oggi non resta/ un nudo sasso ove poggiar la testa,/ un core a cui ridir gli ultimi lai!/ Ed io… chi sa se al ritornar del maggio,/ quando natura i bei tesori effonde,/ quando d’amore il lusinghiero raggio/ parla ai fiori, agli augelli, ai campi e all’onde,/ chi sa, se stanca d’una inutil guerra,/ non poserò nella natia vallata!/ Questa, amico gentil, m’era serbata/ unica gloria, unica gioia, in terra!».

Mariannina non arrivò a godere le bellezze e lo splendore del maggio del 1978. Morì a Noto il 6 gennaio 1878, a 36 anni, 3 mesi e 6 giorni.

A questo punto, pur consapevoli dei limiti di spazio dettati dalla natura del presente scritto, si impone qualche annotazione sulla poesia della Coffa in rapporto al tempo in ci visse. Un pregiudizio duro a morire intende confinarla in una sorta di tardo-romanticismo sdolcinato, lacrimoso, caratterizzato da dolorismo effusivo. In realtà, la poetessa netina, che in “Le mie Ispirazioni” aveva dichiarato: «Oh sì, lo giuro, i canti miei saranno/ l’Amor, l’Umanità, l’Italia e Dio», visse una stagione poetica fortemente romantica, proiettata, a causa della serie di sventure che l’afflisse, al confine tra melanconia e angoscia, tra “mal du siècle” e “spleen”. È però una testimonianza del suo medico ragusano Filippo Pennavaria, che analizzò a fondo i fenomeni psichici cui andò incontro, a fornirci la chiave di lettura di molti dei suoi migliori componimenti: «Quando è fortemente preoccupata da pensiero poetico – affermava lo scienziato – per qualche momento cade in catalessia, e perde le relazioni esterne». Questa perdita di relazioni esterne, questa forma di trance, ci richiama alla memoria il poeta veggente William Blake, precursore del Romanticismo e del Simbolismo, cui è opportuno associarla specialmente quando ella si libera da intenti meramente civili e, in stato di possessione poetica, si libra nella dimensione del trascendente. Un’attenta lettura di alcune delle liriche più coinvolgenti di Mariannina, dalle citate ottave “A Maria Vergine Addolorata”, a “Psiche”, “A Luisa”, a vari componimenti dedicati ad Ascenso ecc., ci aiuta a collocare la sua alta ispirazione poetica nell’ambito del Romanticismo puro, aperto all’invasione degli spazi della temperie culturale che, in seguito, diede vita al Simbolismo.