Lo scorso 1° agosto è entrato in vigore il protocollo addizionale n. 15 alla Convenzione europea dei diritti umani, che è intervenuto a modificare alcuni articoli della Convenzione, secondo una tecnica ormai di uso comune per aggiornare il disposto dei trattati internazionali. Naturalmente occorre che questi protocolli, che sono dei veri e propri trattati di aggiornamento, vengano ratificati da tutti gli Stati parti. Per questo protocollo mancava ormai solo l’ultima ratifica, quella dell’Italia (sic!), finalmente intervenuta il 21 aprile di quest’anno, dopo un lungo e travagliato iter parlamentare.

Da quando, con il protocollo addizionale n. 11, il sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo è stato riformato consentendo agli individui l’accesso diretto alla Corte, senza la mediazione della Commissione, ha acquisito crescente interesse il tema della ulteriore riforma del sistema, atteso che l’accesso diretto degli individui aveva determinato non solamente un numero sempre crescente di ricorsi, ma anche la pressante esigenza di un ripensamento del modus operandi della Corte e del suo sistema di ricorsi.

Gli emendamenti alla Convenzione che hanno trovato posto nel protocollo sono di varia natura e incidenza. Tre sono di importanza più tecnica, come  la riduzione, da sei a quattro mesi a partire dalla decisione interna definitiva, del termine per proporre il ricorso alla Corte (la cui applicabilità è però differita al 1° febbraio 2022, in virtù dell’articolo 8.3 dello stesso protocollo), l’abrogazione del diritto di veto che attualmente  le parti (ricorrente e Stato convenuto) possono esercitare quando una Camera della Corte decida di spogliarsi di un caso in favore della Grande Camera (art. 30 della Convenzione), la modifica del limite di età   per la eleggibilità dei giudici che viene portato a 65 anni (con la possibilità di portare a termine l’intero mandato di nove anni, e dunque arrivare a 74 anni, mentre oggi  i giudici rimangono in carica fino a 70 anni).

Le altre due modifiche sono, direi, di maggior respiro e riguardano entrambe il complesso problema dell’equilibrio tra il ricorso interno, ossia quello presentato davanti a un giudice nazionale, e il ricorso internazionale, ossia quello presentato davanti alla Corte europea.

La prima modifica sostanziale riguarda un emendamento dell’articolo 35 della Convenzione in materia di ammissibilità dei ricorsi alla Corte voluto dal protocollo addizionale n. 14 (entrato in vigore nel 2010) e consiste nella eliminazione della previsione secondo cui la Corte non può rifiutare di esaminare un ricorso quando esso non sia stato debitamente esaminato da un tribunale interno. Questa previsione venne inserita dal protocollo n. 14 per evitare che venissero respinti ricorsi che non avevano ricevuto adeguata trattazione al livello interno (così costruendo il ricorso internazionale come una specie di ultima spiaggia per un ricorso interno che non fosse stato adeguatamente trattato).

La seconda modifica riguarda invece l’inserimento nel Preambolo della Convenzione di un esplicito riferimento alla dottrina del margine d’apprezzamento statale e al principio di sussidiarietà. L’idea della sussidiarietà del sistema della Convenzione viene posta in relazione sia con la primaria responsabilità degli Stati nella tutela dei diritti enunciati e garantiti dalla Convenzione, sia con il riconoscimento agli Stati di una certa libertà di apprezzamento nell’assolvimento di questa primaria responsabilità, beninteso sotto la supervisione della Corte.

Una formula complessa, in verità, che cela dietro la sua bella e rassicurante struttura sintattica (nella quale pare che tutto si tenga in forza della cogenza di una stringente consecutio logica) anni di stratificazione giurisprudenziale alla ricerca proprio di questo delicato equilibrio tra il momento interno della tutela dei diritti e la verifica in sede internazionale.

Una soluzione che adesso sembra premiare il momento interno della tutela, limitando assai il potere di controllo della Corte. Ma, del resto, come si dice sovente, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è uno strumento vivente che, come tale, registra quasi in presa diretta i mutamenti politici nella compagine degli Stati parti, oggi molto inclini a limitare l’intervento della Corte europea.