Dire che ammiriamo un’opera architettonica significa dichiarare che ritroviamo in essa i valori che apprezziamo, rilevare che nei suoi materiali, nelle sue forme o nei suoi colori ritroviamo qualità positive come la delicatezza, la forza, l’integrità, l’eleganza, l’intelligenza …. Dire che un’opera è bella significa dunque individuarvi un’interpretazione dei nostri ideali individuali. Se consideriamo la nostra casa, il rifugio dei nostri stati mentali, non possiamo non renderci
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Photo by Mario La Pergola on Unsplash
conto che noi entriamo in simbiosi con i suoi ambienti, e con le varie stanze stabiliamo relazioni e forti legami, la personalizziamo arredandola e ampliandola nel tempo seguendo gusti personali e crescite individuali. Nelle camere da letto cerchiamo pace, nei bagni l’efficienza, nei mobili e negli arredi l’armonia, nelle colonne o negli spigoli l’eleganza, le scale che ci portano da un piano all’altro devono suscitarci un’emozione. Gli archi a ogiva ci comunicano passione, gli archi a tutto sesto serenità ed equilibrio, certe curve possono parlarci di allegria, certe linee dritte di logica … and so on. Molto spesso non siamo in grado di guardare edifici o arredi senza collegarli mentalmente al periodo storico o alle circostanze personali del momento in cui li guardiamo. I luoghi diventano dunque scenari emotivi dei nostri ricordi. Ma è anche evidente che le cose belle suscitano oggettivamente emozioni positive, fanno valere la loro qualità al di là delle nostre associazioni mentali del momento. A ciascun edificio chiediamo non soltanto di assolvere a determinate funzioni, ma anche che abbia un aspetto che soddisfi le nostre esigenze e che contribuisca a creare un’atmosfera, a seconda dei casi religiosa, culturale, di semplicità o di futurismo, di ambiente di lavoro o di vita famigliare. Vogliamo comunque, e sempre a seconda delle esigenze, che ci ricordi il passato o ci anticipi il futuro. John Ruskin scriveva che «I nostri edifici devono darci riparo e parlarci».
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Photo by William Krause on Unsplash
E il compito degli Architetti, a dirla con la filosofia degli Ingegneri, è trasformare edifici utili, pratici e funzionali in qualcosa di bello. Raramente gli edifici riescono a trasmettere l’idea degli sforzi che sono stati necessari per la loro costruzione, tacendo per pudore i problemi risolti faticosamente, le paure, i ritardi e la polvere che ha visto la loro realizzazione, tutto il lavoro fatto per convincere i materiali e gli esseri umani a collaborare allo stesso progetto per fare in modo che tutto si assembli in armonia e che ogni parte architettonica e ogni impianto assolvano con efficienza al loro compito. Noi stessi siamo persone diverse in luoghi diversi. E siamo divisi tra la necessità di zittire i nostri sensi ignorando l’ambiente circostante per non esserne influenzati e l’impulso opposto di riconoscere che la nostra identità è indissolubilmente connessa all’identità dei luoghi in cui passiamo la nostra esistenza, e che noi ci modifichiamo vivendo in essi.
E quando avremo assolto ad ogni compito e avremo realizzato l’edificio secondo i nostri desideri e raggiungendo gli obiettivi prefissati avremo anche la certezza che tutte le cose hanno la spiacevole tendenza a iniziare a deteriorarsi dall’attimo successivo. Appena entrati in una casa appena costruita o ristrutturata, un palazzo o un grattacielo appena inaugurati potremmo essere sfiorati dall’immagine furtiva ma triste che da quel momento il declino impaziente, lento ma inesorabile, inizierà a segnare con le sue visibili tracce, crepe e macchie il lavoro di cui siamo così orgogliosi. Le rovine antiche che tanto ammiriamo ci insegnano questa lezione