L’Italia ha adottato il tipo edilizio del grattacielo in ritardo di qualche decennio rispetto al luogo storico di origine, gli Stati Uniti, dove ora è una presenza costante e in qualche modo necessaria e opprimente. Cito tra tutti, per non dimenticare, i primi timidi ma eccitanti progetti italiani: la Torre dei ristoranti di Mario Ridolfi del 1928, progetto presentato alla I° Esposizione italiana di architettura razionale, gli edifici sul litorale di Castelfusano di Adalberto Libera del 1933, la Torre Littoria a Torino (A. Melis de Villa e G. Bernocco, 1933, oggi restaurata e divenuta residenza di lusso) e la Torre Piacentini a Genova (M. Piacentini, A. Invernizzi, 1940).
Negli anni ‘50 sulla Riviera Romagnola vengono costruiti i primi tre grattacieli residenziali lungo il litorale che collega Rimini a Milano Marittima, e li troviamo descritti in questo modo: «nati come emblemi della tecnologia e progettati per osservare la natura». Dal loro interno i villeggianti dovevano poter vedere il mare. Ma pensiamo quanto sia anacronistica questa frase pronunciata in una convention di Architetti proprio negli anni ’50 e che recitava, in quel tempo che ci sembra lontanissimo: «L’importante è che questi edifici rimangano isolati. Devono rimanere dei segnali per individuare un’area, magari un’area riqualificata».
Le prime vere architetture attribuibili al genere “grattacielo” sorgono in Italia soltanto dalla fine degli anni ‘50, quando la ricerca universitaria si fonde fruttuosamente con le moderne visioni politiche, rese possibili anche da una nuova classe di imprenditori che intravedono nel grattacielo l’elemento architettonico più adatto per accogliere le emergenti funzioni terziarie, che hanno bisogno di esprimersi in nuovi spazi, e per soddisfare il numero in crescita delle richieste di inurbamento. Per dirla con l’Arch. Mario Cucinella, «Milano ha avuto il coraggio politico e imprenditoriale di credere nella contemporaneità, nel cambiamento urbanistico che può dare nuovo senso all’intera cittadinanza». Così alla fine degli anni ’50 Milano incarna la sua iconografia di progresso, ed è alla cultura internazionale che lo Studio BBPR con la Torre Velasca (strutture ing. Arturo Danusso, 1951-1958) e lo Studio Gio Ponti, Antonio Fornaroli, Alberto Rosselli con il Grattacielo Pirelli guardano, proiettati nel cielo come «fari di un’efficace imprenditorialità urbana», trasformandosi nei nuovi protagonisti del dibattito architettonico internazionale. Ciascuno dei due edifici dominerà uno dei due cuori della città, uno quello antico e uno quello nuovo, susciteranno passioni partigiane, e saranno per decenni gli emblemi della cultura urbana Milanese. Sono opere di costruttori ma al contempo di intellettuali, che sapranno accompagnare l’edificazione alla comunicazione, con una vasta saggistica sulla loro elaborazione teorica e progettuale, tesa a far riflettere sulla complessa consapevolezza del contemporaneo.
È curioso ricordare che Gio Ponti, che considera il Grattacielo Pirelli come il precursore esemplare di un modo di intendere l’architettura nuova della città, pubblica in quegli anni su “Domus”, la prestigiosa rivista di architettura da lui diretta, una sorta di prontuario per tracciare un itinerario italiano per la progettazione dei grattacieli. In una summa sapiente Gio Ponti raccoglie le tematiche per lui essenziali del grattacielo, di cui intravede le grandi potenzialità nella trasformazione urbana, funzionale ed estetica, sintetizzandole in una proposta operativa, in cui sono rappresentati i “valori formativo-sociali” dell’intraprendenza e della fantasia umana. Nel saggio esplica le invenzioni strutturali e gli aggiornamenti tecnici, rende onore al lavoro e alla società che lo produce, elogia il rigore di una forma finita, essenziale e descrive il grattacielo come elemento “illusivo”, cioè poetico. E che abbia un aspetto “luminoso notturno”, cioè che illumini non solo la città diurna, ma anche quella notturna. Infatti li chiamerà Lightscrapers.
(Secondo articolo – Continua)
Foto di apertura dell’autrice