Inizia così una canzone del repertorio romano, cantata in romanesco, era l’estate del 1969, scritta e musicata da Edoardo De Angelis e da Stelio Gicca Palli, due cantautori del giro del Folkstudio, a Via Garibaldi in Trastevere, poi palco e fucina di tanti cantautori romani, come Antonello Venditti e Francesco De Gregori, che lì ebbero il primo contatto col pubblico. Fu subito un successo, sentiamoli:

Te la ricordi Lella quella ricca

La moje de Proietti er cravattaro
Quello che c’ha er negozio su ar Tritone
Te la ricordi te l’ho fatta vede
Quattr’anni fa e nun volevi crede
Che ‘nsieme a lei ce stavo proprio io

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Una specifica: Proietti, classico cognome romano, equivalente di Esposito in Campania, era il cognome che veniva attribuito ai trovatelli, ai figli di n.n., come si diceva una volta, in più, quasi a caricare la situazione, faceva il “cravattaro”, termine che nel dialetto romanesco significa strozzino, poi gli autori diranno che era proprio un negozio di cravatte, di fronte alla fermata del bus a Via del Tritone, in pieno centro storico. Fin qui sembra una canzone così, semplice, “tanto pe’ cantà”, invece è il primo caso nella musica in cui si parla di un delitto orrendo, un uomo che uccide la donna, la violenza di genere, un femminicidio, parola allora sconosciuta. Quella mattina De Angelis aveva sentito alla radio del ritrovamento di un cadavere di donna alla Fiumara, mare di Ostia, così gli viene l’ispirazione:


Te lo ricordi poi ch’era sparita
E che la gente e che la polizia
S’era creduta ch’era annata via
Co’ uno co’ più sordi der marito

E te lo vojo di’ che so’ stato io
So’ quattr’anni che me tengo ‘sto segreto
Te lo vojo di’ ma nun lo fa sape’
Nun lo di’ a nessuno tiettelo pe’ te

Un uomo si vanta della conquista con un amico e dopo quattro anni confessa a lui, ma solo a lui, un orrendo segreto. Una mia parentesi: avevo sedici anni e questa canzone si cantava per le strade, intorno a un fuoco di sera sulla spiaggia o in campagna tutti intorno a un albero di fico…senza forse nemmeno rendersi nemmeno conto della storiaccia infame che c’era dietro. Gli autori diranno poi che nel testo avevano avuto influenza le loro letture di Gadda e Pasolini con i racconti delle periferie romane e le borgate. In breve venne analizzata e ragionata per quello che è, ovvero una canzone contro il femminicidio, uno sporco delitto che diventa una canzone di denuncia e di protesta. E poi il ragazzo continua, quasi compiacendosi, si convince di aver una piena motivazione:

Je piaceva anna’ ar mare quann’è inverno
Fa l’amore cor freddo che faceva
Però le carze nun se le tojeva
A la fiumara ‘ndo ce sta er baretto
Tra le reti e le barche abbandonate
Er cielo griggio a facce su da tetto
‘Na matina ch’era l’urtimo dell’anno
Me dice co’ la faccia indifferente
Me so stufata nun ne famo gnente
E tireme su la lampo der vestito

Arriva il rifiuto, oggi diremmo il toyboy si sente defraudato, colpito nell’amor proprio, non sia mai!… e allora….

Tu nun ce crederai nun c’ho più visto
L’ho presa ar collo e nun me so’ fermato
Che quann’è annata a tera senza fiato
Ner cielo da ‘no squarcio er sole è uscito
E io la sotterravo co’ ‘ste mano
Attento a nun sporcamme sur vestito
Me ne so’ annato senza guarda’ ‘ndietro
Nun c’ho rimorsi e mo’ ce torno pure
Ma nun ce penso a chi ce sta la’ sotto
Io ce ritorno solo a guarda’ er mare

Foto libera da Pixabay

Una storiaccia, un amore cominciato per gioco o per noia, immagini di un mare in burrasca e un amore clandestino, capelli al vento e vestiti buttati tra le barche in secca sulle dune di Ostia e il dramma, senza ombra di pentimento, che esce fuori dopo 4 anni. Ma sì, l’ha fatta franca, raccontandolo all’amico si è pulito l’anima e la coscienza. A questo punto ricordo che rimanevo interdetto, mi guardavo intorno e qualcuno rideva, qualche ragazza con la testa bassa, ricordiamo che era la fine degli anni ’60, con tutti gli stravolgimenti sociali e non solo che c’erano e che seguirono. Quella che veniva ascoltata, quasi distrattamente, è una canzone che veramente è una denuncia sociale che racconta il più maledetto degli omicidi, quello dell’uomo che si uccide perché assassina se stesso, se non altro credendo alla Genesi, uccide una parte di sé, creata dalla sua costola.

Prima di approfondire oltre un altro ricordo, nella assurdità e nella logica perversa della censura: la canzone partecipa al Cantagiro del 1971, ma la serata finale deve essere trasmessa in diretta dalla Rai, i responsabili si rendono conto del mancato pentimento dell’assassino nel testo, non tanto dell’uccisione della donna, questo costituisce un problema, per la morale?, infatti chiedono agli autori di cambiare il testo, dato che gli ultimi quattro versi della terza strofa erano stati censurati. I due accettano ma “Lella” verrà comunque esclusa dalla messa in onda. Il successo del brano, senza tanti ripensamenti, fu grande e tanti altri cantanti la misero nel loro repertorio, da Lando Fiorini alla Schola Cantorum, poi l’Orchestraccia, andava sulle radio libere, ma nessuno faceva nulla, non tanto per fermare la canzone, quanto per porsi il problema, il dramma. Allora non si parlava ancora di femminicidio, caso mai racconta il sopruso del ricco sul povero, l’immagine della donna che si rifiuta, stanca forse di una relazione balorda. Dobbiamo anche ricordare, ma fa molto pensare, che solo nell’agosto del 1981 venne approvata la legge 442 che abrogava il delitto d’onore, il matrimonio riparatore e anche l’abbandono di neonato per onore (articolo 592 Codice Penale). Tutto è quanto mai sbagliato perché la violenza basata sul genere è di gran lunga la prima causa di morte violenta per le donne. Con 120 morti l’anno il femminicidio non può più essere solo una canzone. La fotografia della storia è di tutti quegli uomini violenti, incapaci di amare, che alzano le mani e poi se ne vanno senza guardare indietro, senza un’ombra di pentimento o rimorso. La realtà quotidiana, che ci deve far riflettere, indossa le scarpe rosse che simboleggiano il sangue di tutte le martiri di femminicidio, le scarpe rosse utilizzate per la prima volta da Elina Chauvet nel 2012, per denunciare attraverso un’istallazione artistica l’assassinio di centinaia di donne rinvenute nel deserto di Juarez, in Messico.

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In effetti l’uomo che si rende attore di violenza è un uomo che ha paura della donna, perché la sente contrapposta al suo mondo e alla sua ideologia, ciò lo spinge a considerarla come un pericolo per la sua identità di maschio. Oggi si parla di femminicidio, molto più che in passato, questo neologismo nasce dalle battaglie femministe del secolo scorso in nome della parità uomo-donna e delle lotte e rivendicazioni ancora oggi. La donna, come è ovvio che sia, ha acquisito più potere e continua ancora oggi a rivendicarlo. Man mano che la donna acquista gli stessi diritti degli uomini, però, ma assolutamente non giustificabile, questi si sentono defraudati di quella che è considerata da sempre, a causa di influssi sociali e anche religiosi, la loro caratteristica più importante ovvero la forza.

E’ arrivato il momento, sempre troppo tardi, di ridefinire i ruoli e i concetti legati a stereotipi di genere, insegnando a tutti, per primi ai giovani, a comprendere che la Donna è da considerarsi il completamento essenziale della figura maschile, mentalmente e moralmente, che la complicità che viene a crearsi può far nascere vita e idee nel mantenimento di un equilibrio indispensabile alla vita.

Onore e rispetto a chi di questo principio ne ha fatto la propria missione di vita.

 

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