Nel merito si può ancora legittimamente parlare di libertà di stampa in Italia? O questa esigenza di esistenza in vita è fortemente legata al tema della democrazia reale: esercitata legittimamente o simulacro di un tema ideale?

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Il dubbio non è peregrino perché si potranno anche criticare i criteri statistici utilizzati da Reporter sans frontières ma è un dato di fatto che l’Italia nella graduatoria del 2022 ristagna al 58esimo rango, perdendo 17 posizioni in un anno. Qui le posizioni di merito del G 8 o del G 20 vengono ridimensionate in un alveo di mediocrità. E fa una certa impressione snocciolare i nomi delle nazioni che ci precedono in questa lista, capeggiata come tante graduatorie mondiali dalle nazioni del nord Europa (Norvegia, Danimarca, Svezia, Finlandia).

Dunque l’Italia segue Costarica, Trinidad & Tobago, Sierra Leone, Tonga, Belize. Ci viene in mente per assonanza il commento di Salvini di fronte all’improvvisa defezione di 174 presidenti di seggio a Palermo, collassando referendum ed elezioni amministrative. «Certe cose non succedono neanche nel Burundi!». Ecco che il paragone per la libertà di stampa è quanto mai calzante. Come è potuto succedere tutto questo, come mai ci è venuto in mente di sollevare un interrogativo che retorico non è? In precedenti articoli abbiamo sottolineato l’assenza di editori puri in Italia, cioè interessati al puro profitto con un’industria editoriale.

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La rimessa economica invece qui è prevista perché il quotidiano o il periodico è subordinato a interessi di secondo genere, dunque tutt’altro che puri. È il caso di editori come Berlusconi, Angelucci, Caltagirone, Bonifaci. Talmente immersi in palesi conflitti di interessi da far apparire puro uno come Cairo. Con la crisi diffusionale della stampa lo spazio per fortunate avventure editoriali si è ristretto. Meglio investire nel calcio che nell’editoria se si vogliono acquisire consensi che poi si metteranno a frutto elettoralmente o industrialmente.

Così gli spazi di libertà si riducono in un mercato sempre più piccolo e dalla vita stentata. Così muoiono testate come “l’Unità” o vivono di vita grama testate leader come opinion leader come “L’Espresso” o “Panorama”. Per queste due testate basti confrontare nel raffronto il numero delle pagine editate rispetto agli anni ’70 per valutare la crisi di settore, legata anche a un mercato pubblicitario sempre più vocato alla televisione più che alla carta stampata. Un’impresa editoriale nascente deve mettere in conto un congruo passivo.

Si può sottolineare che nel deprimente caleidoscopio stampa degli ultimi venti anni l’unica novità è costituita da “Il Fatto” di Marco Travaglio ma parliamo di un’operazione di nicchia, riservata in fondo a un’esigua minoranza. Sarebbe interessante mettere in relazione con gli strumenti della sociologia e dell’antropologia un ipotetico gradiente della libertà di stampa con l’esercizio reale della democrazia. Il numero calante di copie vendute dai quotidiani con le percentuali sempre più esigue di votanti. Una generale sfiducia omogeneamente nella politica, nei giornalisti e, di riflesso verso gli editori. Un campo stretto in cui nessuno cambia opinione. In effetti nei giornali si cerca conferma alle proprie tesi in una sorta di auto-riconoscimento intellettuale. Una sorta di lager per zombies pregiudiziali destinati a soccombere di fronte al popolo di non lettori (e, di conseguenza, spesso, di non votanti).

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