Il 25 settembre, con i risultati delle elezioni politiche, forse si è tirata una linea, finale, sul PD, ma anche sul Partito Comunista. I risultati hanno detto della percentuale altissima dell’astensionismo, sfiducia o assenza dell’impegno civile, una larga vittoria del centrodestra.

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E allora torna alla memoria una canzone, in effetti un monologo, di Giorgio Gaber (1939-2003) pubblicata nel 1992, tipica di un genere da lui creato con altri artisti, soprattutto della scuola milanese, ovvero il “teatro canzone”.  Forse ispirato dal fatto che all’inizio del 1991 al congresso di Rimini ci fu lo scioglimento del Pci, poi la Bolognina, dopo innumerevoli dibattiti, gli iscritti, con alle spalle vite di lotta e impegno, non rinnovarono la tessera, famiglie e amicizie si frantumarono, la società accusava il colpo mentre una organizzazione diciamo più leggera si andava costituendo. Nove milioni e mezzo di elettori e un milione e mezzo di iscritti al partito divennero orfani, era finita la “religione” in cui avevano creduto per decenni, il più grande partito socialdemocratico dell’occidente, ma con una base viva e attiva ancora comunista nel profondo per storia, rituali, identità e per il simbolo era definitivamente finita.

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Nulla più: cooperative, Feste dell’Unità, uguaglianza, manifestazioni di operai e studenti, la Resistenza popolare, per rovesciare il fascismo, il dopoguerra poi con braccianti e operai impegnati a ricostruire l’Italia, tanti emigrati all’estero a cercar fortuna e una vita migliore. Siamo cresciuti negli anni settanta della tensione, delle stragi di Stato con i neofascisti impiegati per annullare le rivendicazioni del popolo, dicevamo “delle masse”; la discesa precipitosa degli anni ottanta, il vertice ormai aveva abbandonato la base, i disoccupati, gli sfruttati, i giovani senza futuro seppur laureati, i senza casa e chi ancora emigrava per trovare un lavoro, materiale che basterebbe per ragionarci dei giorni. Chiusa quella “chiesa” che nelle manifestazioni urlava l’appartenenza all’unica grande fede: quella «che va da Che Guevara a Madre Teresa», qualcuno ricorderà.

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Comunista o comunismo, recita Gaber, ovviamente pronunciati in Italia hanno però un diverso significato per un russo o per chi ha vissuto nel vecchio “blocco sovietico”, per un nord-americano e ancora differente per un cubano. In Italia, in un paese saldamente ancorato ai principi occidentali, ma governato per decenni dalla Democrazia Cristiana, comunismo significava anche la voglia del cambiamento, di una alternativa. Quel Partito che era stato il principale partito di opposizione dal dopoguerra fino agli anni Novanta, legato a posizioni filo-sovietiche negli anni cinquanta, trasformandosi poi in “Eurocomunismo” negli anni settanta, spostandosi ancora verso posizioni socialdemocratiche, era arrivato anche a cambiare nome alla fine della sua storia. Iniziava la seconda Repubblica e nel vuoto di ideali, più recitata che cantata, Gaber iniziò una riflessione, con questo suo testo. Sono oltre quaranta stimoli, dubbi e meditazioni, magari affermazioni, talvolta ovvie e anche no.

Penso che sia meglio leggerlo, soffermandosi su ogni frase, su ogni ipotesi o risposte che Gaber afferma, poi ognuno faccia le sue valutazioni, troverà delle motivazioni, rifletterà su scelte fatte o non fatte. Il finale lascia l’amaro in bocca, e non solo, almeno per me:

Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia.
Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà, la mamma no.
Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre.
Qualcuno era comunista perché si sentiva solo.
Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica.
Qualcuno era comunista, perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche, oeh, lo esigevano tutti.
Qualcuno era comunista perché la storia è dalla nostra parte.
Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto.
Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto.
Qualcuno era comunista perché prima, era fascista.
Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano.
Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona.
Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.
Qualcuno era comunista perché era ricco, ma amava il popolo.
Qualcuno era comunista perché beveva il vino, e si commuoveva alle feste popolari.
Qualcuno era comunista perché era così ateo, che aveva bisogno di un altro Dio.
Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai, che voleva essere uno di loro.
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaio.
Qualcuno era comunista perché voleva l’aumento di stipendio.
Qualcuno era comunista perché la borghesia il proletariato la lotta di classe, facile no.
Qualcuno era comunista perché la rivoluzione, oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente.
Qualcuno era comunista perché, viva Marx viva Lenin viva Mao Tse Tung.
Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre.
Qualcuno era comunista perché guardava sempre  Rai tre.
Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione.
Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto.
Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.
Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialettico, per il vangelo secondo Lenin.
Qualcuno era comunista perché era convinto di avere dietro di sé la classe operaia.
Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri.
Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista.
Qualcuno era comunista nonostante ci fosse il grande partito comunista.
Qualcuno era comunista perché non c’era niente di meglio.
Qualcuno era comunista perché abbiamo il peggiore partito socialista d’Europa.
Qualcuno era comunista perché lo stato peggio che da noi, solo l’Uganda.
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant’anni di governi viscidi e ruffiani.

Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica eccetera eccetera eccetera
Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista.
Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia.
Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos’altro.
Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana.
Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa.

Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno. Era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era… come più di sé stesso. Era come, due persone in una. Da una parte, la personale fatica quotidiana, e dall’altra il senso di appartenenza a una razza, che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita.
No, niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali, senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora, ci si sente come in due. Da una parte l’uomo inserito, che attraversa ossequiosamente lo squallore, della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.
Due miserie in un corpo solo.

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