Il 12 dicembre 1969, per me ma ritengo per tutta l’Italia, fu la data della divisione della storia di questa nazione fra “prima” e “dopo” quella data.

Un venerdì pomeriggio come tanti, quasi ora di chiusura nella Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, centro città, ma era ancora piena di clienti, venuti soprattutto dalla provincia, agricoltori, allevatori, ex mezzadri, con gli impiegati che registravano contratti siglati con una stretta di mano, più importante di mille firme, soprattutto poi per chi sapeva appena scrivere e firmare… Poi entrò qualcuno, con una valigetta, una bella borsa elegante, si sedette vicino a un tavolo, di quelli belli massicci, i classici tavoli delle banche, fatti da artigiani, quelli che danno l’idea di sicurezza e della ricchezza della banca, la posò per terra, vicino a una gamba di quel bel tavolo….Qualcuno dei dipendenti vide questo signore, che si accese una sigaretta, forse c’era un filo che spuntava dalla borsa, chissà….poi questo signore elegante uscì nella classica, rassicurante “scighera” milanese….

L’esplosione avvenne alle 16:37, quando nel grande salone, pieno di gente, con un soffitto a cupola, scoppiò un ordigno contenente 7 chili di tritolo. Rimasero uccise 17 persone, delle quali 13 sul colpo, gli altri nelle ore successive e ferite altre 87. E poi ce ne fu una diciottesima di vittima, ma ne parleremo dopo.

Lapide commemorativa delle vittime dell’attentato, apposta nel decimo anniversario della strage-Foto da wikipedia.org – CC BY-SA 4.0

A poca distanza da lì, mentre la città impazziva, nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala, pieno centro, venne rinvenuta una altra bomba, per fortuna inesplosa. La borsa, una bella borsa elegante e costosa, fu trovata e recuperata, ma il cartellino del negozio, ancora attaccato, non fu mai ritrovato, così l’ordigno, che avrebbe potuto fornire elementi importanti per le indagini, innesco, miccia, tipologia di detonatore e materiale esplosivo, fu fatto brillare dagli artificieri la sera stessa, sembra con un intervento in tal senso da “Roma”. Insinuo qualche dubbio??

Nello stesso pomeriggio, a Roma, scoppiò una altra bomba, sempre centro città, alle 16:55 nel passaggio sotterraneo che collegava l’entrata di via Veneto alla Banca Nazionale del Lavoro, poi altre due esplosero tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’ingresso del Museo centrale del Risorgimento, in piazza Venezia. I feriti a Roma furono in tutto 16. Questo il crudo bilancio di quella che verrà considerata la data di inizio della “strategia della tensione”, degli “anni di piombo”. Quel pomeriggio credo che nessuno lo possa dimenticare, io quindicenne a Roma, sentii il telegiornale e nulla fu più lo stesso. Mio padre, che aveva tutta la famiglia a Milano, madre, sorella, cognato e nipoti, impazzì e corse al telefono, all’epoca c’erano i duplex, non riusciva a telefonare per avere notizie, intanto la TV dava nomi delle vittime, immagini orrende, poi in serata ci tranquillizzammo, nessun coinvolto della famiglia, ma l’orrore, la paura e la confusione regnavano in tutte le famiglie. Nei giorni seguenti si bloccò e svuotò tutto, le strade, le piazze, le scuole…tutti spaventati, terrorizzati. Quella data è considerata «la madre di tutte le stragi», il primo e più spaventoso atto terroristico dal dopoguerra, con mille angosce, che spaccavano le menti e i ricordi, per chi aveva vissuto gli anni della Seconda Guerra Mondiale. In quella primavera, nel momento di maggiore tensione, c’erano già stati una serie di attentati terroristici in Italia, in varie regioni, magari non così gravi, più di venti, molti attribuiti agli anarchici, anarcoinsurrezionalisti, ma poi via via sempre più efferati. Altri anni orrendi seguirono, altre stragi atroci e pure più gravi, come la strage di piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974 (8 morti), la strage del treno “Italicus”, a San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, il 4 agosto 1974 (12 morti) e la più sanguinosa strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti). E’ triste dirlo, rispetto a chi ha pianto morti e distruzione, ma noi della mia generazione siamo diventati adulti così, in quel clima.

Dopo il ’68, il maggio francese, c’era stato un incredibile crescita di gruppi e gruppuscoli rivoluzionari, o almeno con quello spirito, sia di destra che di sinistra, le dure lotte e i cortei operai per il rinnovo dei contratti di lavoro, le manifestazioni e le occupazioni delle scuole e delle università da parte degli studenti, stanchi di quel tipo di insegnamento e di rapporti con gli insegnanti, tutti i sindacati che all’improvviso erano parte integrante, più di prima, delle lotte operaie e studentesche e forse non erano nemmeno pronti a una novità così veloce e talvolta feroce, più o meno tutti avevano riempito piazze e vie di tutte le città, confrontandosi e azzuffandosi tra manganellate e lacrimogeni. Di fondo, semplificando, nascevano e si esprimevano, spesso violentemente, certe forme di lotta rivoluzionarie all’interno del mondo del lavoro e delle scuola, ma anche della società in senso esteso. Che qualcosa si stesse preparando, forse in certi ambienti, dei gruppi politicizzati, ma anche nelle Questure e a livello politico, credo che ci fosse un oscuro vago sentore, anche considerando il verificarsi, da un anno e mezzo, di scontri di piazza enormi e spesso anche tragici. Ripensandoci forse la prima vera avvisaglia fu l’assassinio, un mese prima della strage di piazza Fontana, del poliziotto Antonio Annarumma del Terzo Reparto Celere, ucciso a 22 anni proprio a Milano, ancora una volta un ragazzo del Sud, mentre prestava servizio, dai partecipanti ad una manifestazione indetta dall’Unione Comunisti Italiani e dal Movimento Studentesco. Già il “Movimento Studentesco”, all’interno della Università Statale di Milano si era andato sempre più imponendo in una confusione di idee staliniste e anche cattoliche.

L’attentato di Piazza Fontana però negli anni si delineò come parte integrante della strategia stragista portata avanti dall’estrema destra, l’eversione con l’intento di destabilizzare il paese e favorire un intervento dei militari. I maggiori partiti politici consideravano gli anarchici i sicuri colpevoli. Occorreva solo farli confessare. Al momento non si sapeva, ma un anno dopo, tra ammissioni, ritrattazioni, documenti veri e falsi, firme e quant’altro che portarono alla scoperta del tentato, e per fortuna sventato, o forse annullato?, colpo di Stato nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 e organizzato da Junio Valerio Borghese, fondatore del Fronte Nazionale. Gli attentati, venne poi definito, erano tutti finalizzati a un colpo di stato previsto per la primavera-estate ’74, con a seguire un intervento «normalizzatore» dei militari in una situazione di tensione portata all’estremo.

In questa sede non c’è abbastanza spazio per riassumere decenni di processi, la ricostruzione dei fatti secondo la Commissione parlamentare d’inchiesta, sentenze, depistaggi e controanalisi, assoluzioni e apposizioni di “segreto di Stato”. Le lunghe e innumerevoli indagini hanno rivelato che quella strage, e anche altre, fu compiuta da terroristi dell’estrema destra, probabilmente collegati a settori, deviati e non, degli apparati di sicurezza dello Stato, Servizi Segreti militari e civili, oltre alla criminalità organizzata, come mafia e camorra, in più con la complicità di legami internazionali.

Ma torniamo indietro a quando, più sopra, ho accennato a una diciottesima vittima.

La stampa, il governo, tutti i mezzi di informazione dell’epoca, in quelle ore successive al 12 dicembre, avevano puntato con fermezza e sicurezza (poi si capì con fin troppa sicumera e sospetta “precisione”) il dito contro gli anarchici, un gruppo di Milano, con sede al “Ponte della Ghisolfa”, zona ferrovie Cadorna-Bovisa e Milano-Rho.

Pinelli al Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa-Foto pubblico dominio da wikipedia.org

Stranamente già in quello stesso pomeriggio l’Ufficio politico della Questura di Milano era attivo nell’identificare e nell’arrestare alcuni anarchici di quel gruppo. Il commissario Luigi Calabresi, capo di quell’ufficio, era andato personalmente a casa di alcuni e si recò anche a casa di Giuseppe Pinelli, nato a Milano nel 1928, ferroviere, figlio di ferroviere. I due erano conoscenti, c’era una forma di rispetto reciproco e lo pregò di seguirlo in caserma. Pinelli prese il motorino e tranquillo segui la macchina della polizia fino a Via Fatebenefratelli. Non tornò mai più a casa. Sin da subito un movimento di opinione e di stampa spingeva per il perfetto esecutore, l’anarchico, dopo che col crescere delle lotte proletarie, di scioperi enormi che l’Italia non aveva mai vissuto, occorreva trovare un vero e proprio colpevole, a seguire il fatto eclatante e per dare una svolta che terrorizzasse la popolazione, che imponesse di chiudersi in casa, di mettere un fermo stretto al movimento di ribellione sociale. E cosa meglio di una strage… una carneficina tremenda che riguardasse la gente comune. Serviva il capro espiatorio perfetto, anche perché nella storia e nell’immaginario collettivo gli anarchici hanno avuto, nel passato, una serie di esempi di azione diretta, come gli attentati.

Fu così che al quarto piano della sede della Questura, cominciarono gli interrogatori, il 12 dicembre sera. In quella stanza c’erano il responsabile dell’Ufficio politico della questura, tra l’altro ex funzionario politico durante il regime fascista, il Commissario Calabresi e altri cinque, talvolta sei poliziotti e Giuseppe Pinelli. Si professò sempre innocente, aveva anche un alibi con testimoni, ma non fu preso in considerazione. Nel frattempo la ricerca del colpevole si era spostata su Roma e veniva arrestato Pietro Valpreda, nato a Milano nel 1932, anarchico, ballerino, ma claudicante a causa di un severo morbo che ne rendeva difficile la deambulazione, senza un lavoro fisso…la preda perfetta, torbido, indefinibile, sbandato, anche per l’opinione pubblica e per far leva su Pinelli. Gli interrogatori durarono tre giorni, il fermo era diventato illegale in quanto non convalidato dal magistrato, non uscì mai da quella stanza piena di fumo. Quasi da subito però sulla matrice politica, gli anarchici, vennero insinuati dubbi e incongruenze, da parte della stampa e delle indagini, che poi presero corpo, anche se le indagini processuali durarono decenni, con varie confessioni, ammissioni, scoperte casuali di documenti, rimembranze di dati e date, volti, nomi e fatti ritrovati negli anni seguenti. Alla fine dopo decenni la magistratura scagionò gli anarchici da ogni colpa. Ma torniamo alla sera del 15 dicembre, anzi ormai notte piena: la comunicazione ufficiale fu che Pinelli precipitò, si buttò, impaurito, dalla finestra dell’ufficio al quarto piano della questura in un’aiuola sottostante. Portato all’ospedale ci arrivò già morto. La diciottesima vittima. Gli interrogatori dei presenti furono subito un insieme di affermazioni e ritrattazioni, imprecisioni e assurdità, come l’affermazione che a un poliziotto era rimasta in mano una scarpa di Pinelli, ma quando arrivò l’ambulanza le aveva entrambe. Altra assurdità, quattro anni dopo, una sentenza affermò che il soggetto era rimasto vittima di un “malore attivo”, terminologia non presente in nessuna letteratura medica….

Quasi subito per tutti, soprattutto per chi lo conosceva come una persona tranquilla, che non si sarebbe mai suicidato, soprattutto in assenza di incriminazioni e prove, la unica realtà fu che Giuseppe Pinelli era stato assassinato il 15 dicembre del 1969, “aiutato a cadere” dalla finestra della questura dove era sotto interrogatorio, era “Stato suicidato”.

Credo sia giusto ricordarlo con “La ballata del Pinelli”, con la versione scritta la sera del 21 dicembre 1969, il giorno dopo i suoi funerali, sulla musica del canto “Il feroce monarchico Bava”, un brano antimonarchico che parlava della repressione dei moti popolari di Milano (6 – 9 maggio 1898) ad opera del generale Bava Beccaris, perché aveva degli accordi semplici. Poi ne seguirono diverse altre con minime varianti. Fu composta da quattro anarchici, presso il Circolo Gaetano Bresci di Mantova. Immediatamente fu cantata in tutte le manifestazioni, cortei, piazze, scuole, in quei giorni, settimane, anni terribili che tutti vivemmo:

 

Quella sera a Milano era caldo,
Ma che caldo che caldo faceva,
“Brigadiere, apra un po’ la finestra”,
Ad un tratto Pinelli cascò.

“Signor questore, io gliel’ho già detto,
Lo ripeto che sono innocente,
Anarchia non vuol dire bombe
Ma giustizia, amor, libertà.”

“Poche storie, confessa Pinelli,
Il tuo amico Valpreda ha parlato,
È l’autore del vile attentato,
E il suo socio, sappiamo, sei tu.”

“Impossibile!”, grida Pinelli,
“Un compagno non può averlo fatto,
E l’autore di questo misfatto
tra i padroni bisogna cercar”.

“Stiamo attenti, indiziato Pinelli,
Questa stanza è già piena di fumo,
Se tu insisti apriam la finestra,
Quattro piani son duri da far.”

Quella sera a Milano era caldo,
Ma che caldo, che caldo faceva,
“Brigadiere, apra un po’ la finestra”,
Ad un tratto Pinelli cascò.

L’hanno ucciso perché era un compagno,
Non importa se era innocente
“Era anarchico e questo ci basta”,
Disse Guida, il feroce questor.

C’è un bara e tremila compagni,
Stringevamo le nere bandiere,
In quel giorno l’abbiamo giurato,
Non finisce di certo così.

Calabresi e tu Guida assassini
Che un compagno ci avete ammazzato,
L’Anarchia non avete fermato
Ed il popolo alfin vincerà.

Quella sera a Milano era caldo,
Ma che caldo, che caldo faceva
“Brigadiere, apra un po’ la finestra”,
Ad un tratto Pinelli cascò.

 

Foto di apertura di pubblico dominio da wikipedia.org