Cosa avviene nella psiche di una persona quando viene fermata e poi portata in carcere per la prima volta. Non è certo possibile omologare un accadimento uniformandolo per chiunque, ma possiamo certamente affermare che il primo arresto è decisamente traumatico. L’ingresso in carcere viene vissuto come una catastrofe, come qualcosa che non si potrà mai più rimettere a posto.

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Chiunque entri per la prima volta in carcere non conosce davvero cosa c’è ad aspettarlo. La maggior parte delle persone è ancora convinta che i detenuti siano vestiti con le famigerate tute a strisce bianche e nere. Alcuni con quelle arancioni, ammanettati mani e piedi con la palla di ferro. Le paure sono in linea con le più comuni fantasie sul carcere, perlopiù riportate da film ambientati nelle prigioni statunitensi. Chi entra per la prima volta in prigione si chiede se ne uscirà vivo. Se verrà picchiato o stuprato, o entrambe le cose. Le leggende metropolitane sono infinite e le paure, di conseguenza, le più disparate. La realtà è assolutamente diversa. Il carcere italiano, seppur cambiato dal modello dipinto negli anni ‘70, dove a far da padroni erano gli anziani boss della malavita in un contesto quasi poetico, si apre al nuovo arrivato nel disinteresse totale della popolazione carceraria. Certo questo dipende anche dal tipo di reato per il quale si è stati arrestati. I primi giorni sono un susseguirsi di colloqui. Operatori sociali, educatrici, medici, psichiatri, volontari.

La “sezione accoglienza” serve a far conoscere il detenuto agli agenti, che, nel carcere, si chiamano “assistenti”, al fine di poterlo sistemare più o meno adeguatamente, in un contesto appropriato. Ad esempio, un detenuto di origini magrebine verrà, se possibile, assegnato ad una cella con persone aventi medesima origine, o con persone che non abbiano pregiudizi razziali. Per i reati a sfondo sessuale o di violenza di genere (sia maschile che femminile) esistono i reparti SEX OFFENDER. Al nuovo arrivato/a verrà chiesto se preferisce restare dove si trova o essere portato in un istituto di detenzione provvisto di questa sezione. Reparti appositi che dovrebbero garantire l’incolumità di chi, ad esempio, ha commesso uno stupro o di chi, nel caso di genere opposto, abbia commesso un reato paritetico.

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Le paure più comuni, nell’era della tecnologia, sono quelle legate alla stigmatizzazione mediatica che avviene al di fuori delle mura. Non è raro che un suicidio avvenga proprio per quella circostanza e che il dovere di cronaca sia così pressante da far crollare chi si trova ad affrontare questa realtà per la prima volta. Succede, e non di rado, che i tentati suicidi vengano poi giustificati con una motivazione legata alla paura di uscire ed essere riconosciuto da tutti. Etichettati e rovinati per sempre dai motori di ricerca che, anche dopo anni, riportano in vita il passato di una persona onesta che, magari, è rimasto in carcere per tre giorni. Non si può sottovalutare la presenza di una famiglia all’esterno. Chi si trova in cella la prima volta pensa incessantemente a ciò che succede al di fuori. Alle madri, in caso di detenuti giovanissimi, alle compagne. Ai figli/e, alle mogli. Ai parenti, alla rete amicale, ai colleghi di lavoro, ai dipendenti della propria azienda. Comunemente si pensa che a finire in galera siano soltanto spacciatori o mafiosi. In pochi realizzano che in carcere ci sono avvocati, commercialisti, imprenditori.

Il proprietario del bar sotto casa, il vigile urbano che conoscevi da tanto tempo. Che in quel luogo ci sia finito il vicino di casa non è concepibile. Per tutti è l’impossibilità di comunicare a pesare come un macigno. Il non sapere più niente dei propri affetti, l’essere inermi.

Chi è dentro una cella, la prima volta, si vede proiettato in un mondo completamente diverso da quello che immaginava. Non può che domandarsi che ci fa in quel posto.  Un posto obiettivamente tenebroso, angosciante. Un mondo che sarebbe meglio non vedere mai.

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