«Per quanto uno Stato sia vasto,
se il suo principe ama i combattimenti sarà distrutto.»
Jiang Ziya, L’arte dei Marescialli (V sec. a. C.)

 

L’Occidente istituzionalizzato (governi, organismi interstatuali e organizzazioni internazionali) ha messo a fuoco attraverso una serie di centri di studio e strutture politiche (https://www.newsguardtech.com, https://www.atlanticcouncil.org/, https://stratcomcoe.org/, https://commission.europa.eu/index_it, https://fondazionegermani.org/, solo per fare alcuni esempi) la questione della disinformazione che sarebbe agitata da Mosca e Pechino, avvertendoci dei pericoli che corre il nostro sistema democratico.

Si nega agli autori di un’informazione critica un’autonomia di pensiero, che deriverebbe invece tout court dalle tecniche di disinformazione, come se avessero preso possesso delle menti dei commentatori. Soltanto per fare un esempio, anche Lucio Caracciolo di «Limes», rivista arcinota per la sua competenza nello studio delle questioni internazionali, viene spesso additato come un attore della disinformazione.

Noi quindi oggi preferiamo lasciare la parola non agli “analisti della disinformazione alimentata dal revanscismo russo”, ma ancora una volta a tre intellettuali senza alcuna propensione verso la Russia e che provengono dal principale Paese occidentale, gli Stati Uniti d’America.

Jeffrey D. Sachs al World Economic Forum on East Asia 2011 in Indonesia, Flickr

E troviamo nomi di tutto rilievo, il primo è quello di Jeffrey Sachs, economista e saggista statunitense, alfiere dello sviluppo sostenibile e tra i probabili autori scientifici della Laudato si di papa Francesco. In un recente articolo sulla politica estera americana scrive:

«La politica estera degli Stati Uniti si basa su una contraddizione intrinseca e un difetto fatale. Lo scopo della politica estera degli Stati Uniti è un mondo dominato dagli Stati Uniti, nel quale gli Stati Uniti scrivono le regole commerciali e finanziarie globali, controllano le tecnologie avanzate, mantengono la supremazia militare e dominano tutti i potenziali concorrenti. A meno che la politica estera degli Stati Uniti non venga modificata per riconoscere la necessità di un mondo multipolare, ciò porterà a più guerre, e forse alla terza guerra mondiale.

La contraddizione intrinseca nella politica estera degli Stati Uniti è che è in conflitto con la Carta delle Nazioni Unite, che impegna gli Stati Uniti (e tutti gli altri Stati membri delle Nazioni Unite) in un sistema globale basato su istituzioni delle Nazioni Unite nelle quali nessun singolo Paese domina. Il difetto fatale è che gli Stati Uniti hanno appena il 4% della popolazione mondiale e mancano delle capacità economiche, finanziarie, militari e tecnologiche, tanto meno delle prerogative etiche e legali, per dominare il restante 96%.»

La seconda analisi proviene dal già citato Noam Chomsky, filosofo della sinistra americana, di origine ucraina, da sempre critico della politica estera degli Stati Uniti e del ruolo dei mass media nelle democrazie occidentali. In un’intervista contenuta nell’ultimo suo libro Poteri illegittimi, si domanda:

«… si è sviluppato quel tipo di Europa immaginata da De Gaulle, un’Europa che si estende dall’Atlantico agli Urali, separata e indipendente? No, a prevalere fu la visione degli Stati Uniti grazie alla loro potenza. Questa questione tornò nuovamente alla ribalta con il crollo dell’Unione Sovietica (1990-91). Michail Gorbačëv propose una “casa comune europea”, come la definì lui, che si estendesse da Lisbona a Vladivostok senza alleanze militari e senza vinti né vincitori, ma tutti uniti nel costruire un futuro di socialdemocrazia.

Bush padre era moderatamente d’accordo con questa linea. Ma poi arrivò Bill Clinton e gettò tutto all’aria. Immediatamente, nel 1994, cominciò a espandere i confini della NATO, rompendo così l’accordo tra Bush e Gorbačëv, sostenuto dalla Germania, sul fatto che non ci dovesse essere un allargamento dell’Alleanza.»

John Mearsheimer con Roger Cohen del New York Times alla tavola rotonda sul conflitto ucraino, Chatham House, Londra, 25 giugno 2014, Flickr

La terza testimonianza è di John Mearsheimer, politologo dell’Università di Chicago, uno dei principali esponenti della cosiddetta “scuola realista” americana:

«La visione convenzionale sottovaluta abbondantemente i pericoli di una escalation in Ucraina. Anzitutto, le guerre tendono ad avere una logica propria, che rende difficile prevederne il corso. Chi dice di sapere con certezza quale strada prenderà la guerra in Ucraina si sbaglia. Le dinamiche dell’escalation in tempo di guerra sono tanto difficili da prevedere quanto difficili da controllare, il che dovrebbe esser di monito a coloro che sono fiduciosi che gli eventi, in Ucraina, si possano gestire.

Inoltre, come ha riconosciuto il teorico militare prussiano Carl von Clausewitz, il nazionalismo incoraggia le guerre moderne a degenerare nella loro forma più estrema, specialmente quando la posta in gioco è alta per entrambe le parti. Questo non vuol dire che le guerre non possano essere limitate, ma che limitarle non è facile. Infine, dati i costi sbalorditivi di una guerra nucleare tra grandi potenze, anche una piccola possibilità che essa si verifichi dovrebbe far riflettere tutti, a lungo, sulla direzione che potrebbe prendere questo conflitto.»

Delle tre visioni, due appartengono a personaggi entrambi legati in qualche modo all’establishment degli Stati Uniti, la terza è quella di un acerrimo critico del sistema americano, ma a noi sembrano perfettamente collimanti con un precedente razionalmente luminoso, il famoso discorso che John Fitzgerald Kennedy tenne nel 1963 all’American University, in un momento di difficile crisi della pace mondiale.

Immagine di apertura: John F. Kennedy, discorso al Congresso degli Stati Uniti, 25 maggio 1961, NASA