Prologo.

Il 4 agosto di undici anni fa moriva Renato Nicolini, l’architetto che Giulio Carlo Argan aveva voluto (e i successori Petroselli e Vetere confermato) alla guida dell’Assessorato romano alla cultura. Moriva nel bel mezzo della sua stagione, l’estate, a nove anni dall’ultima delle manifestazioni cinematografiche in qualche modo afferibili alla sua Massenzio: “Gangs of Cinema” (2003), 11 giorni all’ex mattatoio di Testaccio. Da tempo ormai la Massenzio che aveva concepito lui era un fantasma che cammina. Tre sole estati (1977- ’79) nella sua sede eponima, la Basilica di Massenzio ai Fori imperiali, prima di esserne sfrattata da uno di quei terremoti romani di cui si accorge solo chi abita ai piani alti. Sisma davvero minimo, ma sufficiente a compromettere la stabilità della Basilica. Quanto basta per spostare altrove quelle rassegne ormai troppo frequentate. Per anni Massenzio, non più Basilica o imperatore ma rassegna cinematografica, si era spostato nei dintorni (Colosseo, Parco del Celio, Circo Massimo) e fuori (Eur, Cinecittà), prima esplodendo in un fuoco d’artificio di schermi e rassegne, poi progressivamente marginalizzata dal diverso indirizzo politico delle giunte Signorello e Giubilo, dalle sciocche polemiche sull’effimero (anche da sinistra), dalla chiusura dei cineclub che ne avevano costituito la colonna portante e più in generale da quella di una stagione della cultura cinematografica capitolina. Ma l’Estate Romana è ancora lì, senza “maratone” e notti bianche, trascurata ma ancora lì, a rappresentare uno di quei passaggi, di quei “coming of age” delle società, dai quali, come da quelli delle persone, non si torna. In barba a tutte le pandemie. Le notti estive non torneranno più quelle che erano prima di quel 1977 che al centro degli anni di piombo e della notte della Repubblica vide germogliare un seme, divenuto rapidamente pianta, poi bosco, e oggi è come i platani del lungotevere, sempre malati ma ancora lì a fare la loro parte. Siccome penso che fra coloro che veramente hanno cambiato in meglio la nostra vita, sul finire del secolo che Eric Hobsbawm definì breve, lo spettinato che tanto amò la vita e dovette lasciarla a settant’anni sia uno dei primi, quanto segue è dedicato a lui.

 

Bologna, 31 luglio 1981. Lectura Dantis.

Mi scuso per il vento che ha turbato questa dizione, questo canto, e sebbene ringrazi gli astanti ricordo un po’ a tutti che ho dedicato questa mia serata, da ferito a morte, non ai morti ma ai feriti dell’orrenda strage” (Carmelo Bene)

Sono le 23, 05 del 31 luglio1981. Da un anno, l’orologio della stazione è fermo alle 10 e 25. Da tre ore più di centomila persone si sono strette intorno al simbolo della città, con gli occhi fissi a un omino, perso in una macchia di luce alla base della torre. «È un capolavoro di scenografia, l’antica gloria dei palazzi usata come quinte e sipari inondati di luce violetta» (Luca Goldoni). Tutte le vie che convergono su piazza Ravegnana sono gremite di una folla muta, mai così grande, presa da quei versi meravigliosi soffiati, sussurrati, cantati dall’uomo sulla torre, che increspa la voce e vibra e rugge e suda come un martire per il caldo e la tensione. Chi non c’era non potrà che farsela raccontare. Poco può la riproducibilità tecnica, solo teorica del resto, perché la Rai si è rifiutata di mandare in onda il “Dante comunista”. L’evento è questa folla, davanti e intorno all’omino nel tondo di luce (non i sono ancora i maxischermi), nell’onda di quella voce. Ci saranno repliche, ad esempio al Palasport di Roma; con Eduardo. Bello, bellissimo ma non è la stessa cosa. Io, che arrivai da Roma qualche ora dopo, l’ho persa. E mi manca. Ma dove inizia, e come, la storia di popolo che porta a una notte come questa, impensabile, si può dire, fino a ieri?

 

Breve storia dell’effimero. Roma 1976. Anni affollati

In quegli anni tremendi (ne arriveranno di peggiori), Roma sembra tornata quella di Stendhal, il paese dello stiletto, degli omicidi per strada: il misto di infame e meraviglioso che è sempre stata, in fondo, con un’inquietante accentuazione del primo elemento. Quattro mesi dopo il massacro del Circeo, l’assassinio di Pasolini ha acceso un faro su un mondo che gli “Scritti corsari” non erano bastati a illuminare. Lo avrebbero fatto le inchieste degli anni successivi (una per tutte: “Pasolini. Massacro di un poeta” di Simona Zecchi). Un universo repellente, che poco ha a che fare con il mondo delle borgate e molto con il fascismo endemico della Capitale. Il ponte che dal Pincio attraversa viale del Muro Torto verso villa Borghese porta ancora la grande scritta di un ignoto e spericolato entusiasta, “Vota Caradonna”, risalente probabilmente al 1948, ultimo anno in cui l’ex vicepresidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni si sarebbe (ma non è sicuro) candidato alle elezioni. È un altro scrittore venuto da fuori, il vicentino Goffredo Parise, a scrivere, senza pubblicarlo, il romanzo di quella Roma. “L’odore del sangue” uscirà vent’anni dopo, molto dopo la morte dell’autore. Il ritratto di Piazza del Popolo (“la piazza dove Almirante teneva i suoi comizi”) e dei suoi frequentatori alle cinque di un mattino d’estate, contenuto nelle ultime tre pagine (“Roma”), è esemplare dell’atmosfera di quelle notti. Strano libro, “L’odore del sangue”, scritto di getto, senza correzioni o revisioni, e sigillato in un cassetto richiederà una laboriosa ricostruzione filologica da parte di Cesare Garboli. Nel 2004 Mario Martone ne trarrà un film con Michele Placido e Fanny Ardant, ambientato a Napoli, ancor oggi introvabile in rete (solo in DVD), che piace a pochi. Per me è bellissimo, ma sono in fiera minoranza.  Poi, pietà l’è morta, sarà la lotta armata, con la sua bieca fantasmagoria di sigle rosse e nere, a rendere sempre più la politica una guerra per bande, con la divisione dei quartieri in zone d’influenza infrequentabili. Una guerra feroce e vigliacca. Dove lo Stato ha spesso più di una parte in commedia. “Anni affollati”, li definirà Gaber: “di idiomi, di idioti, di guerrieri e di pazzi”.

 

La strana coppia e la leva di Archimede.

Giulio Carlo Argan

Quando si insedia a capo del Consiglio comunale, Giulio Carlo Argan ha 67 anni. Eletto nelle liste del PCI è il primo sindaco non democristiano di Roma. Tra i fondatori, con Cesare Brandi, dell’Istituto Centrale del Restauro, è il più rinomato dei nostri storici dell’arte; sui suoi libri ha studiato mezza Italia. Da Ispettore del Ministero dell’Educazione Nazionale (ministro Giuseppe Bottai) ha guidato, fra il ’39 e il ’45, la più incredibile operazione clandestina di salvaguardia del patrimonio artistico mai realizzata al mondo. Verrà chiamata “Arca dell’Arte” e consiste nella messa in sicurezza fra le mura della Rocca di Sassocorvaro in Montefeltro, nel Palazzo dei Principi di Carpegna e nei sotterranei del Duomo e del Palazzo Ducale di Urbino (successivamente anche in Vaticano, grazie a Giovanni Battista Montini) di oltre 7.800 opere d’arte provenienti dai musei di tutta l’Italia del Nord, al riparo dai bombardamenti e dalle razzie dei tedeschi in ritirata. Operazione condotta in gran segreto dall’arpinate Pasquale Rotondi, straordinaria figura di grand commis pubblico allora direttore della Galleria Nazionale d’Arte Antica, nominato soprintendente alle Gallerie e alle Opere d’arte delle Marche apposta per gestire l’immane compito. Solo quarant’anni dopo, nel 1984, verrà tolto – dal sindaco di Sassocorvaro! – il segreto che l’ha protetta per tutto quel tempo.

Renato Nicolini

Renato Nicolini è quello che si dice un giovane e promettente architetto. Con Franco Purini, che sarà suo sodale in uno dei progetti più ambiziosi dell’Estate Romana (quello denominato “Campo Centrale”), collabora al progetto giunto primo ex-aequo al Concorso internazionale per la ristrutturazione del quartiere delle Halles a Parigi. Ha qualche altro progetto all’attivo ma una moderata vocazione a gestire professionalmente queste competenze. Gli piace la politica. Gli piace scrivere, insegnare e far casino. È un casinista con tratti di malinconia, come i veri casinisti. Probabilmente è un’indicazione di partito a farli incontrare, ma l’anziano professore sabaudo e lo scapigliato architetto trasteverino (lo chiamano tutti così, “scapigliato”, forse perché non si pettina e ne ha molti) si prendono. “Tu sei il mio Majakowski” gli dice Argan “Conto su di te, perché in Italia l’avanguardia ha il passo del gambero”. Comincia bene.

“Datemi una leva e vi solleverò il mondo, diceva Archimede”. Roma è attonita (“si esce poco la sera, compreso quando è festa”), livida (“c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra”), ma culturalmente vivacissima, soprattutto nel mondo dei nuovi linguaggi, della sperimentazione teatrale, della musica, dei cineclub. La leva su cui punta la strana coppia per risollevarla è il più negletto degli assessorati, quello alla cultura. Non lo vuole nessuno, serve solo per mettere qualche amico politico ai Musei Capitolini, al Teatro dell’Opera o all’Argentina. Anche in questo, purtroppo, Roma è l’opposto di Milano. Non ha mai avuto una politica culturale. Ogni istituzione o iniziativa privata va avanti per conto suo. Non per niente l’avvenimento culturale di quell’anno è un film che si chiama “Io sono un autarchico”. Majakowski si mette all’opera. Si tratta di riaccendere le notti romane, perché non siano mai più come quella raccontata da Parise in quelle tre pagine dell’”Odore del sangue”. Non solo riuscirà, ma farà scuola in Europa. Jack Lang, il nuovo Ministro della Cultura di Mitterrand, un Nicolini parigino, si ispirerà dichiaratamente a quelle estati, e non ne salterà una.

 

Dentro Roma. Massenzio.

Roma aveva gli ingredienti ideali per poter riuscire: grandi periferie e un centro storico straordinario. Quindi, quella che è stata in qualche modo sempre l’anima dei linguaggi espressivi della modernità, cioè un forte conflitto, un forte strappo fra antico e moderno, riuscendo a conservare nella rappresentazione sia l’antico sia il moderno, lì funzionava” (Alberto Abruzzese).

Roma è ricca di energie in campo cinematografico: ha una rete di cineclub che propone a un pubblico esigente e appassionato quel mix di cultura alta e bassa che Massenzio porterà alla sua massima espressione. In foto ‘Senso’ di Luchino Visconti. È un pubblico di cinefili; non sempre ha bisogno della Corazzata Potemkin per alimentare il proprio sussiego intellettuale: a molti basta King Kong. Sono “quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire” (Jannacci); “quelli che vanno nelle fabbriche a spiegare Totò agli operai” (Arbasino). Ma gestito da loro e dall’associazione dei Cinema d’Essai, Massenzio sarà l’unico cineclub per quattromila al mondo. Ai piedi del Palatino, di fianco al Colosseo, con la luna tra gli archi.

25 agosto 1977. Si parte. La rassegna di apertura è “Cinema epico”.  “Carosello napoletano” di Ettore Giannini, richiesto, non è arrivato. Si opta per “Senso” di Visconti. Il nazional-popolare, quello vero, al suo livello più alto.  Il secondo giorno è quello della prima maratona: i cinque film del “Pianeta delle scimmie”, uno in fila all’altro, fino all’alba. Ma l’alba arriva presto, d’estate. L’ultimo dovrà essere rinviato per luce. Niente presentazioni, tanto meno dibattiti. Il biglietto costa 500 lire per le serate feriali; 1000 per le maratone del week end. Considerato che un quotidiano costa 300 lire, sono 3 e 6 euro di oggi. Esemplare la composizione della rassegna: “Intolerance” di Griffith e “Alexander Nevskij” di Eisenstein. Epica italiana: “Il Gattopardo” di Visconti, “Roma” di Fellini, “C’era una volta il west” di Leone, “Viva l’Italia” e “Paisà” di Rossellini; Epica dei Peplum: “Ercole alla conquista di Atlantide” e “La rivolta dei gladiatori” di Cottafavi,Maciste nella valle dei re” di Campogalliani, “Maciste va all’inferno” di Freda;

Epica della battaglia: “La battaglia di Alamo” di John Wayne, (vedi foto), “Tora! Tora! Tora!” (AA. VV.); Epica della bestia: “King Kong” di Cooper e Schoedsack; Epica dell’Apocalisse: “… e la Terra prese fuoco” di Val Guest, “Le piogge di Ranchipur” di Negulesco. E poi la notte dei trailer: 11 schermi che proiettano in simultanea venti ore di “Prossimamente” cinematografici. E poi… Chissà cosa avrebbe detto il rag. Fantozzi a vedere “Alexander Nevskij” con duemila persone che non solo hanno pagato un biglietto ma sembrano anche contente. Rischierebbe anche di trovare il dott. Guidobaldo Maria Riccardelli in camuffa davanti a King Kong.

La Babilonia di Griffith: “Intolerance”

Nei romanzi di Pasolini c’è sempre un capitolo che si chiama “Dentro Roma”, in cui i personaggi entrano in città. Massenzio porta, in quella prima fase, la periferia “dentro Roma”.  A Massenzio siedono, gli uni accanto agli altri, “quelli che hanno letto un milione di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare”. Gli anni successivi saranno dedicati all’uscita dalle Mura Aureliane e l’estate romana sarà tante altre cose. Ma la prima è un trionfo. È Nicolini che parla in un bel documentario Rai di Giovanni Minoli (“La storia siamo noi :

La seconda sera, il 26 agosto, nacque, con un mese di anticipo, mia figlia. Che fu perciò chiamata Ottavia. Arrivai a Massenzio a mezzanotte passata, quasi l’una, quando stava finendo il secondo film. Nella Basilica erano ancora sedute quasi quattromila persone, quante non ne avevo mai viste insieme al cinema. Sulla panca dove trovai posto c’era, accanto a me, la tipica famiglia romana, che si era portata gli spaghetti, le cotolette nel pane, il vino, i bambini, i nonni e le coperte per il freddo della notte; dall’altro lato dei giovani rollavano tranquillamente uno spinello. Massenzio, vecchio pagano, aveva cominciato il suo viaggio.”

“Roma” di Fellini

 

Foto di apertura: Napoleon di Abel Gance al Colosseo. In basso, illuminata, l’orchestra diretta da Carmine Coppola (padre di Francis) che accompagna la proiezione