La pubblicazione di un documento ufficiale di un documento che usa lo schwa, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Il Docente Ordinario di Linguistica Italiana all’Università di Cagliari, Prof. Massimo Arcangeli ha pubblicato l’appello, molto duro, che trovate nel riquadro.

APPELLO DEL PROF. MASSIMO ARCANGELI

Ordinario di Linguistica italiana, Università di Cagliari

Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della “e” rovesciata” non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altri disturbi neuropatipici. I fautori dello schwa, proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi, esortano a sostituire i pronomi personali “lui” e “lei” con “ləi”, e sostengono che le forme inclusive di “direttore” o “pittore, “autore” o “lettore” debbano essere “direttorə” e “pittorə”, autorə” e “lettorə”, sancendo di fatto la morte di “direttrice” e “pittrice”, “autrice” e “lettrice”. Ci sono voluti secoli per arrivare a molti di questi femminili. Nel latino classico “pictrix”, come femminile di “pictor”, non esisteva. Una donna che facesse la pittrice, nell’antica Roma, doveva accontentarsi di perifrasi come “pingendi artifex” (‘artista in campo pittorico’). C’è anche chi va ben oltre. Gli articoli determinativi “il”, “lo”, “la”, poiché l’italiano antico, in usi che oggi richiedono “il”, poteva prevedere al maschile singolare la variante “lo”, si pretende che convergano sull’unica forma “lə”, e i rispettivi plurali (“i”, “gli”, “le”) che confluiscano in “l3”, col secondo carattere che non è un 3 ma uno schwa lungo. Entrambi i segni, lo schwa e lo schwa lungo, sono perfino finiti in ben 6 verbali redatti da una Commissione per l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia. Lo schwa e altri simboli (slash, asterischi, chioccioline, ecc.), oppure specifici suoni (come la “u” in “Caru tuttu”, per “Cari tutti, care tutte”), che si vorrebbe introdurre a modificare l’uso linguistico italiano corrente, non sono motivati da reali richieste di cambiamento. Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività. Lo schwa, secondo i sostenitori della sua causa, avrebbe anche il vantaggio di essere pronunciabile. Il suono è quello di una vocale intermedia, e gli effetti, se non fossero drammatici, apparirebbero involontariamente comici. Peculiare di diversi dialetti italiani, e molto familiare alla lingua inglese, lo schwa, stante la limitazione posta al suo utilizzo (la posizione finale), trasformerebbe l’intera penisola, se lo adottassimo, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio meridionale e il calabrese dell’area di Cosenza.

Questo appello è stato sottoscritto da altri 18 docenti universitari di linguistica, tra i quali Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, già Ordinario di Storia della Lingua italiana, il famosissimo e direi tutt’altro che fascista, Alessandro Barbero, per proseguire con Massimo Cacciari (che quando c’è da litigare non si tira mai indietro)

Abbandonando le cattedre troviamo tra i sottoscrittori il filosofo Paolo Flores d’Arcais, direttore di “MicroMega”, Edith Bruck, poetessa, scrittrice e testimone della Shoa, Barbara De Rossi, attrice e conduttrice televisiva, la regista Cristina Comencini, Ascanio Celestini (sì proprio lui) e, più prevedibile, Michele Mirabella. Dalla politica c’è Costanza Zavanone del Partito Democratico, già assessore alle Pari Opportunità del Comune di Valenza.

Ma la levata di scudi non finisce qui: l’Accademia della Crusca, in un articolo pubblicato sul suo sito web, si è pronunciata sulla questione dell’asterisco e dello schwa, due soluzioni proposte per rendere la lingua italiana, secondo i sostenitori, più “inclusiva”.

L’articolo dell’Accademia della Crusca, a cura di Paolo D’Achille, spiega che queste soluzioni non sono praticabili per diversi motivi.

L’articolo è molto lungo: vediamo di riassumerne gli aspetti principali.

Va premesso che se di opposizione si può parlare allo schwa/asterisco/U, non si tratta di un’opposizione ideologica, ma proprio su una conoscenza di quella che è la lingua, di come funziona e quindi cos’è il genere grammaticale.

Un primo problema è la pronunciabilità: come si legge l’asterisco? Ovvio che questo simbolo, non avendo nulla di fonetico, va scartato. Fuori uno.

Si obietta che c’è lo Schwa, un segno fonetico internazionale. Peccato che in italiano non esista, con effetti che il Prof. Arcangeli (vedi riquadro) ritiene “comici”. Avete presente “mondo” in napoletano? Si pronuncia “Munne” con la “e” finale quasi impercettibile. Ecco! Quello è lo schwa!

L’uso della “u” (Ciao a tuttu) è un artificio innaturale; una scelta del tutto residuale derivante dal fatto che praticamente nessuna parola italiana finisce con questa vocale (e un motivo ci sarà!)

Passando alle argomentazioni più tecniche, va precisato che il genere grammaticale non ha nulla a che vedere con il genere naturale o biologico. Tra i numerosi esempi portati nell’articolo, citiamo il sostantivo “guardia” che è di genere femminile, anche se storicamente le guardie sono sempre state perlopiù uomini; sul versante opposto si può citare l’esempio di “soprano” che non solo sono per definizione donne, ma donne la cui voce è particolarmente lontana da quella del maschio.

Insomma, il genere grammaticale è una categoria complessa che non può essere ridotta a una semplice questione di genere naturale.

Poi si passa a parlare del genere neutro. Molti dicono: “ma se esisteva il neutro in latino, perché non riesumarlo?”.  Perché il neutro non ha niente a che fare con l’inclusività o il genere: Il neutro in latino non si riferiva alle persone, se non in casi rarissimi nei quali “inclusività” non appare di certo!

La Crusca spiega che anche nella lingua inglese, che il neutro ce l’ha, non si può usare il neutro per riferirsi agli esseri umani. Usare il pronome “it” per indicare le persone non binarie sarebbe addirittura offensivo, li si considererebbe oggetti!

Per contro quando pensiamo alle “fraulein” tedesche, ci vengono in mente deliziose biondine con gli occhioni azzurri: ebbene la parola “fraulein” è declinata al neutro e di certo nulla toglie alla femminilità delle ragazze tedesche. È sempre e solo un problema di codice linguistico sviluppatosi nei secoli, come l’esempio già fatto della parola “guardia”.

Il maschile plurale non è maschilista, ma è semplicemente il “genere non marcato”, cioè quello che viene usato per riferirsi a un gruppo di persone o cose, indipendentemente dal loro genere. Insomma, sotto un certo punto di vista, un genere “depotenziato” dalla sua “virilità”.

In realtà, il “genere non marcato” si usa anche al singolare: in “chiunque sia stato, si faccia avanti”, usiamo il maschile e non diciamo mai “chiunque sia stato o stata”. E di certo in questa espressione non c’è la minima intenzione di escludere le donne!

La lingua ha una sua “economicità”, visto che la sua funzione è quella di comunicare, cerca di farlo senza inutile dispendio di energia e tempo (Ne tengano conto tutti i prolissi!)

Foto da https://yasminapani.it/chi-sono/

A questo punto la Crusca ammette espressioni come “tutte e tutti”; Yasmina Pani, una linguista che vedremo tra poco, si pone però una domanda del tutto legittima: se nell’uso del “Genere Non Marcato”, ancorché “coincida” per praticità con il maschile, non c’è alcuna forma di maschilismo e se vale il principio di “economicità” perché dire “tutte e tutti”? Se arrivando dico “Ciao a tutti”, mi vuoi accusare di salutare solo gli uomini? Cerchiamo di non essere ridicoli! L’articolo della Crusca sottolinea inoltre che la lingua non può essere modificata a tavolino, ma si evolve spontaneamente. I tentativi di imporre cambiamenti linguistici dall’esterno, come è stato fatto dal fascismo con il voi o con il cocktail, diventato una ridicola “bevanda arlecchino”, hanno sempre fallito.

L’articolo della Crusca presenta alcuni “suggerimenti”, importante notare “suggerimenti” non “soluzioni” che però, viene ammesso, sono molto macchinosi.

Infatti, qualsiasi uso linguistico parte da un accordo tra i parlanti, ma questo accordo prevede una trasformazione istintiva e naturale che si sviluppa nel lungo o lunghissimo periodo.

Non può e non deve essere frutto di un “perbenismo, superficiale e modaiolo” come lo definisce il Prof. Arcangeli.

L’inclusività insomma deve essere un processo sociologico che si evolve in modo naturale, spontaneo e soprattutto non solo formale: metto la coscienza in pace usando lo schwa, ma poi col cavolo che assumo una ragazza appena sposata in odore di figli.

Insomma, prima divento inclusivo e rispettoso delle pari opportunità, poi la lingua rifletterà automaticamente e senza alcun artificio questa nuova disposizione d’animo.

L’inclusività e le pari opportunità non possono e non devono essere una “imposizione” come in generale è il Politically Correct: quella che Pierpaolo Pasolini definiva “Il fascismo dell’Antifascismo” (vedi articolo pubblicato in questa rubrica ad agosto)

Il fatto che l’unico esempio storico, nella nostra lingua, di modifica artificiosa della lingua sia stato il fascismo dovrebbe far riflettere.

Libera nos a “politically correct”

A completamento, inserisco, riguardo questa petizione, il link al video della già citata Yasmina Pani, una linguista sarda, di grande competenza, chiarezza e soprattutto lucidità di pensiero.

Foto di apertura pubblico dominio da commons.wikimedia.org