Si è respirato un clima da “Ultimi giorni di Pompei” nelle battute finali della Cop28… Come giocare al boia in casa dell’impiccato, in Dubai, dove si sviluppa il massimo possibile della magica parola “sviluppo”. L’uomo è al bivio tra crescita/lavoro e salute/sopravvivenza. Alla voce “cambiamento climatico” o a quella “Ilva di Taranto”, piccoli grandi scenari di sopravvivvenza. E l’Italia, fanalino di coda ritardatario nell’assolvimento dei 17 obiettivi del capitolo di cambiamento (come ampiamente sottolineato da Enrico Giovannini) si conferma ultima ruota del carro in tutte le scelte decisive del futuro (cambiamento climatico ma anche eventi bellici, inversione rispetto alla vasta tendenza del frugalismo europeista), incapace di una propria visione, se si vuole originale mediterranea e specifica.

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Prima di arrivare a contare alla rovescia per la fine del mondo si è iniziato a contare gli anni della sopravvivenza del petrolio mentre gli anti-ambientalisti a loro modo suggerivano lo slogan “non fossilizziamoci sui fossili”, magari strizzando l’occhio al nucleare. Si intuisce che per contenere l’aumento della temperatura l’auto elettrica, inzeppata di prodotti per cui l’Africa per l’ennesima volta viene depredata, è pallido antidoto. Di fronte a una caduta del clima in progressione geometrica (desertificazione, scioglimento dei ghiacciai, aumento dei decessi nelle età critiche) le domeniche ecologiche delle città metropolitane sono un palliativo ridicolo. In Italia il mutamento climatico accentua le diseguaglianze (si, anche economiche), marca la sostanziale diversità di nord rispetto a sud e isole, dei capoluoghi di provincia rispetto alle grandi città. Il traguardo dell’addio al petrolio è fissato al 2050. Ben 27 anni ci separano dal raggiungimento di questo traguardo. E la transizione sarà lunga e difficile. Interregno in cui i fatti dovranno prendere il sopravvento sulle parole. Riconoscendo che l’auto privata non ha un futuro in universi inquinati senza parcheggi né tutele, dove spesso regna una “terra di nessuno” (esempio Roma, dove i vigili urbani sono rintanati in ufficio e ormai indifferenti rispetto ai loro teorici compiti primari). Se questo 2050 sarà un “prendere tempo” o una svolta reale provvederà il tempo a giudicarlo. E’ chiaro che il tempo dell’attesa riguarda soprattutto Paesi come la Nigeria o l’India che devono riconvertire in maniera drastica il proprio modello di crescita, confortato da un aumento del Pil considerevole. Il Ministro nigeriano per l’ambiente Ishak Salako, sul’argomento ha commentato: “Chiedere alla mia nazione, se non a tutta l’Africa, di eliminare del tutto i combustibili fossili è come chiederci di smettere di respirare senza il conforto di alcun supporto vitale”. Questa in termini crudi la questione. Il grande mercato finanziario mondiale, i mai troppo denunciati poteri forti, remano in senso ovviamente contrario. Ma il cambiamento climatico delinea un senso unico e chi va in direzione contraria dovrebbe andare a sbattere su un metaforico macigno oltre che su una contraddizione. Ora la globalizzazione dovrebbe servire per strategie comuni, un mutuo soccorso, per un modello di crescita non omologato ma equilibrato. Uscendo dai limitati confini sovranisti delle scelte nazionali, se non nazionaliste. Un compito decisamente immane per la quale l’Italia e il suo Governo non godono di buone referenze né di eccellenti precedenti, remando in direzione contraria. L’insistenza sulla necessaria costruzione del Ponte di Messina anche se appare tema estraneo alla problematica delineata, mostra una diabolica perseveranza nell’insistere su una filosofia resistente alla teorica affermazione del nuovo modello. Il mondo balla sull’orlo del precipizio ma la coscienza della situazione non è necessariamente la soluzione al disastro. Se non sarà suicidio volontario potrebbe sempre essere eutanasia.

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