Quale porta aprire all’economia del futuro? Per rispondere a questa domanda esaminiamo alcuni elementi, con un percorso che ci porti dalla storia del pensiero economico all’attualità.

Dal liberalismo al neoliberismo

Adam Smith, statua sulla Royal Mile a Edimburgo, Pixabay

L’economia moderna nasce come economia politica con l’obiettivo di governare il cambiamento della società, produrre ricchezza al fine di soddisfare i bisogni umani. Secondo Adam Smith e la sua dottrina della «mano invisibile», che spinge ogni individuo a massimizzare il proprio interesse, dovrebbe garantire attraverso il benessere individuale quello collettivo: in breve e in perfetto equilibrio, arricchire «sia il popolo sia il sovrano». Lo Stato da parte sua dovrebbe avere il compito di rimuovere gli ostacoli alla libertà di scambio e offrire i servizi pubblici che i privati non sono in grado di dare.

Il successivo sviluppo delle teorie liberali non ha portato ad approfondire gli assiomi dell’economia come ipotesi verificabili ma alla loro trasformazione in dogmi, identificando il rigore scientifico con la matematica e, per analogia meccanicista, con la fisica newtoniana. La matematica si è affermata sull’evidenza empirica. Come dirà Léon Walras, «la teoria pura economica è una scienza che riprende le scienze fisico-matematiche in tutto e per tutto».

La visione lineare imprese-consumatori-mercati, nonostante la parentesi marxista, ha prevalso arrivando progressivamente a ignorare non soltanto la finalità del benessere collettivo ma anche i beni comuni, producendo in eccesso e inquinando come se l’umanità – e l’economia – non fossero parte della natura, generando i dissesti e le crisi che ben conosciamo e che sono tutt’altro che sotto controllo.

Nel secondo dopoguerra il sistema capitalistico, alimentato in maniera crescente attraverso i mercati finanziari, si è infatti isolato in un circuito autoreferenziale, nel quale il lavoro, la produzione e le risorse naturali sono oggetto di processi di marginalizzazione, che tendono a legittimare ogni forma di disuguaglianza mettendo in pericolo i più preziosi tra i beni comuni: il clima e la biodiversità del pianeta, i diritti dei suoi abitanti, le prospettive future per le nuove generazioni. Conflittualità e carestie, con gli effetti prodotti di crisi alimentare e di migrazioni drammatiche, sono le più evidenti conseguenze di uno squilibrio internazionale crescente.

Il neoliberismo, sull’onda della globalizzazione e con il supporto delle organizzazioni internazionali, riconverte quindi i propri obiettivi: economia circolare, sostenibilità, fonti rinnovabili, lotta al cambiamento climatico, innovazione produttiva, qualità del lavoro, occupazione e riduzione delle diseguaglianze, protezione della salute sono le parole chiave di un nuovo ordine mondiale ancora saldamente in mano alle élite dominanti.

La teoria della complessità e il multipolarismo

In questo scenario appena abbozzato irrompe l’invasione dell’Ucraina, che aumenta «ulteriormente l’incertezza economica» nel mondo. Lo afferma il segretario al Tesoro americano, Janet Yellen, sottolineando il 9 maggio che c’è il «potenziale per una continua volatilità e irregolarità per la crescita globale». D’improvviso l’emergenza sanitaria e quella climatica balzano in secondo piano rispetto alla rilevanza assunta dalla guerra in Ucraina, come se a questa venisse assegnato un compito decisivo.

La politica delle sanzioni (che colpiscono asset finanziari, materie prime, idrocarburi) vede il sistema occidentale contrapporsi ad ogni Paese che venga ritenuto una «minaccia» per l’ordine mondiale, ma la loro applicazione non ha mai prodotto i risultati che si proponeva quando non è stata addirittura un danno per i Paesi promotori.

I Paesi oggetto di sanzioni, in numero crescente, hanno iniziato da tempo a ricorrere a strumenti economici alternativi: nuove associazioni tra Stati, nuovi sistemi basati sulle monete nazionali – come quelle di Cina e Russia, preferibilmente interconnesse -, e, in prospettiva, anche nuove capacità produttive in grado nel breve e nel medio termine di attrarre investimenti e conquistare nuovi mercati, come quelli tradizionalmente esclusi del Terzo Mondo. Per intenderci, un’economia parallela a quella occidentale, che vedrebbe ridimensionata l’attuale egemonia di euro e dollaro.

Henri Poincaré in un’immagine dei primi del Novecento, Smithsonian Institution Libraries

La teoria della complessità, che vede le sue origini in Henri Poincaré (in polemica con Walras sulla necessità di verifica delle ipotesi), mette in dubbio il paradigma lineare delle scienze fisico-matematiche, che privilegia l’approssimazione della certezza sull’incomprensibilità del mondo, secondo regole di coerenza e di consequenzialità, e la sua applicazione alle scienze sociali. Il mondo non è semplice, è complesso, e una sua rappresentazione semplice è falsa, mentre la complessità è la scoperta che il mondo procede in modo non lineare, imprevedibile, caratterizzato da più elementi opposti (stabilità e instabilità, ordine e disordine, equilibrio e squilibrio …). La complessità può così essere utile nella comprensione della realtà. E la realtà è che, già ora, l’economia non è più un’estensione di quella neoliberale, ma va vista in chiave geopolitica.

L’ipotesi che la guerra possa essere l’occasione del liberismo per ridisegnare il proprio potere globale unipolare anche a costo di un conflitto generalizzato è altrettanto fondata dell’obiettivo opposto di arrivare a definire un nuovo ordine internazionale multipolare. Una volontà illuminata dovrebbe sostenere Stati e organismi internazionali nel cercare vie nuove per l’economia che favoriscano una transizione ordinata dalla globalizzazione alla multipolarità – con aree specifiche quanto a cultura, economia, leggi e cybersicurezza -, per mezzo di regole chiare e condivise e istituzioni rilevanti.

Immagine di apertura di Arek Socha, Pixabay