Del primo numero di Tutti, quello uscito nel dicembre del 1972, ricordo le infinite riunioni, le discussioni su questo o quell’articolo, le telefonate a tutte le ore.

E la lettera aperta che scrissi a nome di tutta la redazione a Italo Giulio Caiati, da qualche mese ministro della Gioventù. E l’articolo sulla scuola, argomento di cui già mi occupavo, collaboratore alle primissime armi, per il giornale della mia città, Il Messaggero. Ricordo persino il colore del maglione che indossavo in tipografia per proteggermi dal freddo, il profumo di inchiostro delle bozze, l’odore pungente delle “ciano”. E la paura di sbagliare, di non accorgermi di una ripetizione in un titolo, di un refuso, di un passaggio grammaticalmente scorretto.

Non era la prima volta che andavo in tipografia a “chiudere” un giornale. Lo avevo già fatto per quello della mia scuola, l’Augusto Righi, lo stavo facendo per un altro piccolo giornale di settore che avevo appena fondato e lo avrei fatto ancora in altri giornali, in ruoli sempre diversi e con sempre maggiori responsabilità. Ma la tensione di quel dicembre 1972, chiuso in una stanza gelata, con un maglione girocollo azzurro, non la posso dimenticare. Erano i momenti decisivi, quelli in cui andava in porto un progetto a più mani che coinvolgeva decine e decine di ragazzi della mia età siciliani e triestini, lombardi e campani, pugliesi e toscani messi insieme a fare rete, come si dice adesso, da un tenace e instancabile Claudio Leone (il quale, resti tra di noi, malgrado i cinquant’anni passati, di quella tenacità e instancabilità non ha perso nemmeno un grammo). Ogni segno che facevo sulle bozze era senza appello, ogni parola che cancellavo o aggiungevo sarebbe sparita o sarebbe apparsa sul giornale, sarebbe morta per sempre o sarebbe rimasta per sempre. In quelle ore, ma io non lo sapevo, stavo vivendo l’essenza del mestiere che avrei fatto per tutta la vita, quello del giornalista. Un professionista che ha sempre troppo poco tempo davanti a sé per fare quello che vorrebbe, ma che deve farlo lo stesso e bene. Un professionista chiamato ogni giorno, ogni ora, a fare scelte che non potrà più cambiare. Senza appello, appunto, come quelle di un ventenne che chiude da solo un giornale fatto da studenti entusiasti.

Ci sono due momenti, in particolare, in cui rapidi flash back mi hanno riportato a quando chiusi in tipografia il primo numero di Tutti.

Il primo fu all’Espresso, il 19 luglio 1985. Era un venerdì, il giornale era fatto e tutti se ne erano andati, dal direttore ai capiredattori. Non so per quale motivo tra l’una e le due del pomeriggio al giornale ci sono solo io del servizio interni. E quindi sono io a leggere sulle agenzie la notizia della tragedia della val di Stava, la frana di fango che uccise 268 persone. Devo agire subito, rintracciare i capi che non hanno certo il telefonino, concordare gli inviati da mandare sul posto, prendere in mano il timone e studiare le modifiche da fare, avvertire la tipografia. Mi si dirà che la chiusura di Tutti e il blocco in tipografia di un settimanale come l’Espresso non sono eventi paragonabili. Certo, ma è paragonabile l’adrenalina che si prova. E io, come forse direbbe Totò, la provai già.

Il secondo è qualche anno dopo, nel 1991, a Padova. Sono vicedirettore del Mattino e il direttore, Maurizio De Luca, è in ferie perché è il 19 agosto. Arriva la notizia che in Unione Sovietica è in corso un tentativo di colpo di stato per deporre Michail Gorbaciov. Una notizia clamorosa che impone una copertura straordinaria. Questa volta il direttore ha il telefonino ma dove sta non c’è campo, quindi si va avanti con i vecchi metodi. Smonto letteralmente il giornale, costruisco una nuova scansione delle pagine, riorganizzo la redazione per far fronte all’evento straordinario. Non ricordo il numero di pagine che facemmo, sicuramente due in più di Repubblica, e non so quanta adrenalina mi entrò in corpo quel giorno. Ma era sempre la stessa, quella che “provai già”.

Poi toccò a me diventare direttore, prendere decisioni rapide e inappellabili ogni giorno, ogni ora. La produzione di adrenalina divenne costante, sparirono i flash back della tipografia di Tutti, ma sono convinto che quel piccolo imprinting, all’apparenza insignificante in una vita professionale lunga ormai più di cinquant’anni, sia stato davvero importante. Mi è stato di aiuto per imparare a valutare in pochi secondi le conseguenze di una decisione. A non prendere tempo quando il tempo non c’è. A non aver paura delle proprie azioni. Che poi abbia preso decisioni o compiuto azioni sempre giuste è tutta un’altra storia.

Di questo soprattutto ringrazio, nei giorni del suo cinquantesimo compleanno, Tutti e il suo ideatore e condottiero, Claudio Leone. E li ringrazio anche perché in quella piccola redazione sono nate amicizie che durano tuttora: solide, per sempre.

 

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