Con dolore siamo arrivati a un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, mentre decine di altre guerre e guerriglie insanguinano il mondo. La guerra è purtroppo ancora attuale e questa di cui scrivo è considerata la canzone contro la guerra per eccellenza della musica italiana e non solo.

De André- febbraio 1998 – Foto pubblico dominio da wikipedia.org

«La guerra di Piero», scritta nel 1964 non ebbe subito successo, solo nel 1968 diventò un inno pacifista e antimilitarista, la ballata dell'”antieroe” cantata da tanti obiettori di coscienza, fenomeno diffusissimo in quegli anni, non solo in America con la guerra del Vietnam, è uno degli esempi più alti della poetica musicale di Fabrizio De André (Genova,1940 – Milano, 1999). In quegli anni si sentì cantare nei cortei, nelle scuole occupate, una delle tante del repertorio militante sia degli studenti di sinistra che di quelli cattolici, impegnati a comprendere, ridisegnare il loro ruolo nella società. Faber, come lo aveva soprannominato Paolo Villaggio, suo compagno di avventure nella Genova degli ultimi, dei carruggi, delle prostitute e degli invisibili, dette voce da riflettere a tutti. Un brano dove, insieme a tanti temi, il “tempo” è quello che scandisce movimenti e decisioni, contro l’assurdità della guerra, in cui si definisce il conflitto interiore vissuto da tutti i soldati, che devono scegliere tra il loro dovere o un impulso morale, che impedisce loro di uccidere un uomo. La sofferenza che passa dal testo a chi ascolta è una sofferenza universale, valida oggi come allora, da ogni soldato di qualsiasi Paese del mondo.

Una vera poesia, dove le narrazione è una invettiva potente contro il male della guerra, che gli fu suggerita dal diario dello zio materno Francesco, che durante la Seconda Guerra Mondiale era stato impiegato nella Campagna d’Albania, oltre ad altre poesie e canzoni che arrivavano dall’estero, piene di riferimenti e sentimenti contro la guerra.

La canzone parla di un soldato semplice, per l’appunto Piero, il quale parte per la guerra, lasciando a casa tutta la sua vita. Piero si ritrova a marciare con tanti altri come lui, fiaccato dal freddo e dal peso delle armi, senza un perché, solo sottoposti a ordini, per mesi, ma nella sua solitudine pensa non al dover uccidere un nemico, come dovrebbe essere la finalità di un soldato, ma vorrebbe solo che la guerra terminasse, non ne può più di vedere “i cadaveri dei soldati portati in braccio dalla corrente”, sogna la pace. Piero però non può decidere, camminando camminando arriva la primavera, dopo poco anche la frontiera e lì, d’un tratto, scorge di fronte a sé un altro soldato, anch’esso affaticato e pensieroso, ma che “ha la divisa di un altro colore”.

Foto libera da Pixabay

E’ un nemico, però Faber ci insinua il dubbio che anche l’altro sia stanco della guerra e di quello che comporta, ma Piero è spaventato: capisce che quello che deve fare è ucciderlo, rapido, ma nella tempesta dei pensieri capisce che avrebbe il tempo per “vedere gli occhi di un uomo che muore”. La paura però non ha colore né divisa, Piero tentenna, ma anche l’altro è terrorizzato, ma più veloce, preme il grilletto. Piero sta lasciando la vita, pochi istanti ancora, pensa a Ninetta, la sua amata, le parla con i suoi pensieri: le dice che “morire ed andare all’inferno (perché non c’è paradiso per chi uccide) avrebbe preferito andarci in inverno” e non in un giorno di maggio, “sepolto in un campo di grano”.

L’autore segna personalmente il testo, con riferimenti a se stesso che quasi consiglia Piero, coinvolge l’ascoltatore, in effetti sembra di essere accanto a Piero, con “il vento ti sputa in faccia la neve”, cerca di convincere Piero a fermarsi, poi a sparare, in una confusione estrema di sensazioni e sentimenti opposti. De Andrè con questo brano marca profondamente l’animo di chi ascolta, perché è stato capace di rendere umana e tangibile la disumanità della guerra, in un rincorrersi di simboli nel testo che lo caratterizzano ancora di più. La fine del brano è quella che forse colpisce di più l’animo di chi ascolta e quasi si ritrova lì, su quel campo:

Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.”

Foto libera da Pixabay

L’autore cita i papaveri rossi, perché? Certo i tulipani e le rose sono fiori che, di norma, vogliono simboleggiare la passione, l’amore e, in generale, la vita. Il papavero, invece, ha un significato preciso: è ovviamente un fiore primaverile, spontaneo e che è presente nei campi diffusamente, ma a causa del colore scarlatto è diventato simbolo di guerra e di morte, dato che sin dalla Prima Guerra Mondiale si vide presente soprattutto nei campi di battaglia delle Fiandre, così divenne il fiore per ricordare i caduti delle due guerre mondiali. I temi fondamentali della canzone non sono soltanto la guerra e la morte: un ruolo di rilievo lo ha, infatti, anche il tempo; il tempo che scorre durante la lunga marcia, il tempo che servirà a Piero per vedere il nemico morire, il tempo che egli perde nella sua esitazione che lo porterà ad essere ucciso, il tempo che non gli sarebbe stato sufficiente nemmeno “a chiedere perdono per ogni peccato”. La guerra ha regole spietate, non esiste pietà e l’altro è solo un nemico, non un uomo.

Quanti Piero dovranno ancora morire prima che l’essere umano, sotto qualunque bandiera, capisca il significato della parole pace?

Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi,
ma sono mille papaveri rossi.

«Lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendan i lucci argentati,
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente.»

Così dicevi ed era d’inverno
e come gli altri verso l’inferno
te ne vai triste come chi deve
il vento ti sputa in faccia la neve.

Fermati Piero, fermati adesso
lascia che il vento ti passi un po’ addosso,
dei morti in battaglia ti porti la voce,
chi diede la vita ebbe in cambio una croce.

Ma tu non lo udisti e il tempo passava
con le stagioni a passo di giava
ed arrivasti a varcar la frontiera
in un bel giorno di primavera.

E mentre marciavi con l’anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore.

Sparagli Piero, sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora
fino a che tu non lo vedrai esangue,
cadere in terra a coprire il suo sangue.

«E se gli sparo in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà per vedere
vedere gli occhi di un uomo che muore.»

E mentre gli usi questa premura
quello si volta ti vede ha paura
ed imbracciata l’artiglieria
non ti ricambia la cortesia.

Cadesti a terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che il tempo non ti sarebbe bastato
a chieder perdono per ogni peccato.

Cadesti a terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
e non ci sarebbe stato ritorno.

«Ninetta mia, crepare di Maggio
ci vuole tanto troppo coraggio.
Ninetta bella, dritto all’inferno
avrei preferito andarci in inverno.»

E mentre il grano ti stava a sentire
dentro le mani stringevi il fucile,
dentro la bocca stringevi parole
troppo gelate per sciogliersi al sole.

Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.

Foto di apertura libera da Pixabay