Gli italiani sono un popolo di santi, navigatori, pizzaioli e…scrittori. Nel paese in cui si pubblicano 170 libri al giorno con un’offerta bulimica il cui risultato boomerang è che il 93% degli stessi non supera le 100 copie distribuite (i dati sulla lettura effettiva sarebbero ancora più scoraggianti) si moltiplicano le scuole di scrittura creativa. Come se l’ispirazione letteraria potesse essere insufflata per decreto. Non crediamo al mito del talento puro. La scrittura è un misto di applicazione, artigianato e doti naturali. Ma il meccanismo dei corsi ruota attorno alla vanità di chi prevede un roseo futuro davanti a sé ed è disposto a spendere cifre importanti per accedere al magico empireo della letteratura. Meglio se introdotto da una firma illustre nelle vesti di docente. Dando per sottinteso che sono pochissimi gli scrittori che vivono di diritti d’autore, ecco un facile ripiego per sbarcare il lunario e contribuire al proprio mantenimento personale. Perché mai uno scrittore realizzato dovrebbe perdere il proprio tempo per disciplinare le energie di aspiranti tali?

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La stura a questa diffusione macroscopica sul territorio delle scuole di scrittura è imputabile ad Alessandro Baricco la cui Scuola Holden è diventato un autentico prototipo industriale, una sorte di Luiss per ricchi tirocinanti in cerca di fortuna. Per pudore non riportiamo i costi per frequentare l’esempio più togato delle scuole di scritture, con sede a Torino. Baricco ha vissuto di quello, ha venduto le quote, è diventato una sorta di guru per allievi che in qualche caso sono anche sbocciati alla popolarità investendo su una scommessa. Il problema è che viviamo in un Paese in cui tutti scrivono e nessuno legge. Azzardate un vostro personale sondaggio nelle metropolitane, sui treni, nei bus. Quante persone leggono un libro, un giornale o un volantino? La carta ha perso di peso e di densità rispetto alla volatilità facile del digitale riassunto in uno smartphone con le sue infinite potenzialità. Però il libro, con la sua astratta lontananza, rappresenta ancora un’icona vintage. Fa biglietto da visita, curriculum, dà prestigio. E così tutti vogliono editare un libro, venendo incontro a un’altra famelica offerta: l’auto-pubblicazione. Quella che tiene in vita, in combinato disposto con la pubblicazione di antologie collettive, malcerte e malferme case editrici in cerca di fortuna. Un sistema scompensato, quasi una bolla in cui resistono i Festival di Letteratura, i Saloni del Libro (Torino, Roma), le presentazioni riservate perlopiù al ristretto novero di amici e parenti più che di estimatori. Un presagio di estinzione. Un piccolo mondo antico che sembra non avere più molti anni di vita davanti a sé. L’episodico primato di vendite del libro di Vannacci è una triste anticipazione sul mondo dei libri che verrà.

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