Nella sessione di aprile 2024, il Parlamento Europeo ha approvato ben dieci testi legislativi che compongono il cosiddetto “Patto su Asilo e Migrazioni”. Si tratta di un insieme di documenti molto complesso e controverso, che veniva spesso denominato “Dublino Due” da chi auspicava un superamento delle strettoie della normativa a suo tempo adottata sotto la Presidenza irlandese. Il pacchetto era in elaborazione da parecchi anni sulla base di densi ed accesi negoziati intergovernativi, conclusisi nel dicembre scorso con un accordo politico al Consiglio Europeo.

Riferendo sul dibattito e sulle votazioni che si sono svolte ora al Parlamento Europeo, la gran parte degli osservatori ha dovuto constatare un profilo fin troppo dimesso di un’assemblea spesso divisa lungo aggregazioni di tutela di interessi nazionali più che per distinzioni e contrapposizioni nette tra le varie famiglie politiche europee. Ciò sembra confermare quanto avevamo rilevato più in generale nell’articolo dello scorso mese a proposito dei manifesti elettorali, sull’attitudine delle principali famiglie politiche europee a “tenersi strette al petto le carte” da mostrare solo al tavolo dei negoziati post-elettorali per la formazione della futura “governance” europea.

È verosimile infatti che il futuro politico dell’Europa venga sì delineato dalle elezioni del prossimo giugno, ma sia poi definito concretamente soprattutto da una successiva, complessa interazione tra gli orientamenti delle forze politiche europee e dei governi nazionali, condizionati in tempo reale dalle inevitabili ripercussioni di poderosi “fattori esterni” come l’Ucraina, il Medio Oriente, Trump, il “Global South”, l’energia, il clima, le pandemie ecc.

Di fronte a questo possibile scenario, il pensare di “pantografare” sull’intero Continente il nostro quadro politico nazionale (un centro-destra compatto al di là delle differenze interne della coalizione) appare una metodologia che suscita più di una perplessità. Lo avevamo suggerito noi stessi, tempo fa. Ora dà a questa tesi una ben più autorevole conferma scientifica la Fondazione Carlo Cattaneo. Attraverso un’analisi empirica dei voti espressi dai singoli eurodeputati nelle votazioni chiave della legislatura 2019-2024, uno studio coordinato dal Prof. Salvatore Vassallo esamina 7 macro-aree di politica pubblica (diritti civili, affari costituzionali, politica estera, economia, industria, questioni sociali e agricoltura), delinea il perimetro delle coalizioni delineatesi in aula su tali materie e ipotizza il futuro posizionamento dei gruppi di destra rispetto alle stesse questioni.

La conclusione è che, anche scontando la previsione di un aumento dei seggi del 15% per ECR (Conservatori e Riformisti Europei) e addirittura del 30% per ID (Identità e Democrazia), la “Grande Coalizione” tra popolari e socialisti verosimilmente resisterà “faute de mieux”, con l’apporto probabilmente dei liberali di “Renew” e forse, un po’ più saltuariamente, di verdi e sinistra. Ne potrebbe però discendere che “mentre i dati mostrano che su un gran numero di questioni politiche la coalizione centrista reggerà, potremmo aspettarci che, nel tempo, occasionali alleanze con una destra numericamente più forte possano creare una polarizzazione finora sconosciuta in quella che è la più consensuale delle istituzioni”.

Quella che sembra più avvertire la fragilità del futuro che l’attende pare proprio l’attuale Presidente della Commissione Europea, Ursula Von Der Leyen, che si candida ora al rinnovo del mandato. Sembra una sorta di nemesi rispetto al 2019. Allora il candidato di punta (Spitzenkandidat) del Partito Popolare Europeo era Manfred Weber, ma un veto di Macron costrinse Angela Merkel a cercare rapidamente un’alternativa, che trovò nella sua Ministra della Difesa.

Designazione assolutamente intergovernativa, sulla quale la “candidata di riserva” ha saputo giocare abilmente per sviluppare una sua autonomia e capacità di manovra con le Capitali europee e con le famiglie politiche maggiori, la c.d. maggioranza Ursula. Una relativa indipendenza poi aiutata dalle circostanze impreviste, prima della pandemia e poi dell’invasione dell’Ucraina, che hanno riportato di moda l’affermazione per cui “l’Europa si costruisce soprattutto nelle crisi”.

Sembrava quindi che tutto il fronte europeista fosse pronto ad offrirle un sostegno pressochè incondizionato per la riconferma ma lei pareva nicchiare, attratta forse dal possibile passaggio alla guida della NATO. In quel periodo, c’era stata la manovra di Weber per costruire in sede europea una maggioranza di centro-destra che facesse a meno di socialisti e verdi, considerati “una palla al piede” per la loro intransigenza ecologista. Ursula, che aveva sostenuto il “Green Deal” gestito dal suo vice socialista Timmermans, ha sconfitto la “congiura di palazzo” ordita da Weber al Parlamento Europeo.

Ma deve aver fiutato che il vento stava cambiando ed ha quindi annacquato molto il suo zelo riformista, soprattutto su clima ed accoglienza. Alla fine, ha sciolto la riserva ed offerto la sua disponibilità al rinnovo, diventando a marzo, al Congresso di Bucarest, la candidata ufficiale del PPE. Ora, si avvertono segnali che questa tattica abbastanza spregiudicata potrebbe ritorcersi contro di lei, rinverdendo l’antico detto, per cui “chi entra in Conclave da Papa rischia di uscire da Cardinale”. La maledizione dello “Spitzenkandidat”! Con la voce che gira che il “candidato di riserva” possa questa volta essere identificato nella Presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola.

Forse è bene allora che Ursula legga e mediti lo studio della Fondazione Cattaneo. Forse è bene che ponderi con attenzione le affermazioni di autorevoli europarlamentari socialisti e liberali che, preoccupati dagli ambigui segnali del PPE alle componenti più moderate ed atlantiste della “galassia sovranista” (ECR e non ID), anticipano che non concederanno deleghe e chiedono di essere tutelati nei negoziati post-elettorali da una sorta di “contratto di coalizione europea” che metta “nero su bianco” la sostanza politica e programmatica della legislatura europea 2024-2029.

Sarebbe una gran bella novità. Suggeriremmo al riguardo alcuni testi dai quali trarre spunti per impegni programmatici coraggiosi e specifici, molto meno evanescenti dei manifesti adottati per le elezioni europee di giugno. Molto utile potrebbe essere un’approfondita consultazione del Libro Verde del Movimento Europeo Italia, così del documento strategico lanciato da Marco Buti e Marcello Messori o del rapporto “Europa Compiuta” dell’Osservatorio sulle Imprese dell’ Università della Sapienza di Roma. E il nostro “decalogo”? Siamo lieti di segnalare due citazioni, probabilmente indirette, ma pur sempre molto lusinghiere.

Prima, il Ministro degli Esteri Antonio Tajani, che, in una sua “lectio magistralis” a Parma, riprende, oltre ad altri spunti del nostro decalogo (potere legislativo del PE, unione bancaria e fiscale, seggio europeo in Consiglio di Sicurezza), anche l’idea di una Presidenza unica per l’Europa. La proposero Dini ed Amato nella Convenzione presieduta da Giscard d’Estaing nel 2002-2003 e noi ne abbiamo fatto un nostro “cavallo di battaglia” sin dalla Conferenza sul Futuro dell’ Europa del 2021-2022.

Inoltre Enrico Letta, secondo indiscrezioni giornalistiche, dovrebbe presentare al prossimo Consiglio Europeo il suo rapporto sul futuro del mercato unico europeo proponendo una riedizione dell’americano “Inflation Reduction Act (IRA)”, provvedimento di grande impatto per incentivi agli investimenti nella transizione ecologica ed energetica. Copiare dall’America per avvicinarsi agli Stati Uniti d’Europa, per dare consistenza federale ad un altrimenti fragile impianto intergovernativo. Qualcuno lo ha chiamato “momento hamiltoniano” e noi ci siamo permessi di riprendere la tesi nell’ultimo punto del nostro appello. Che Enrico Letta lo abbia letto?